NUOVA LUCE SU DENDERA di Lia Mangolini

 

 

  1. Immagine di apertura: Un bassorilievo di Dendera in Egitto che fa supporre insospettabili conoscenze tecniche e scientifiche. A parere di Lia Mangolini il grande “bulbo” sarebbe una opportuna raffigurazione della “Pila di Bagdad” in grado di generare energia elettrica

 

NUOVA LUCE SU DENDERA

di Lia Mangolini

 

Nella storia delle scoperte e invenzioni scientifiche quella dell’elettricità occupa un posto a parte, perché – ma non è un caso unico – con ogni probabilità avvenne due volte. La seconda volta, a parte le primordiali osservazioni dei due ultimi millenni, si svolse nell’ultimo quarto di quello appena concluso, dalla Bottiglia di Leida a Tesla, ed ebbe un’origine casuale ed empirica. Ciò non significa però che il fenomeno fosse intuitivo, e infatti circa mezzo secolo di studi e ricerche sarebbe passato prima di giungere alla piena comprensione e alla corretta formulazione dei suoi principi teorici. La prima volta invece quella scoperta ebbe luogo non si sa dove, ad opera non si sa di chi, e non si sa nemmeno quando, tranne il fatto che – effettuata da una civiltà chiaramente evoluta – di sicuro fu fatta molti millenni fa. Sarebbe inverosimile pensare che anche quella prima volta fosse il frutto di un fortunato esperimento. Sembrerebbe logico piuttosto dedurre che quella sconosciuta civiltà avesse acquisito le cognizioni scientifiche e teoriche per produrre elettricità statica. Ma che quelle conoscenze fossero state raggiunte autonomamente, in un lungo lasso di tempo, dai nostri antenati, o magari (secondo alcuni) a essi donate da “esseri superiori” civilizzatori, o “dèi”, è una questione che rimane aperta. In ogni caso, pur se di quella primeva, superiore civiltà – poi misteriosamente scomparsa per qualche ignoto motivo – non conosciamo nulla, sarebbe tuttavia insensato dubitare della sua esistenza, di fronte alle tante portentose, irriproducibili realizzazioni (in ambito edilizio, ma non solo) delle sue straordinarie capacità.

 

Che nel Vicino Oriente già prima del II millennio a.C. esistessero nozioni e applicazioni dell’elettricità statica è attestato dalla nota “Pila di Baghdad”, che sarebbe superfluo illustrare a lettori di certo informati.

 

2. Immagine sopra: Pila di Bagdad con il cilindro di Rame e l’asticciola di Ferro.

Rammenterò solo che con molti esemplari di quel dispositivo, collegati in serie-parallelo, si può ottenere per galvanoplastica una placcatura spessa solo pochi micron, come dimostrano diversi reperti dorati o argentati.

3. Immagine sopra: Roberto Volterri ha realizzato alcune Pile di Bagdad per riuscitissimi esperimenti di Galvanostegia ante litteram.

Inoltre forse l’elettricità venia usata per anestesia locale, come le anguille elettriche, e per il “serpente di bronzo” con cui Mosè soccorreva, sottoponendoli a una bella scossa, i malcapitati morsi da veri serpenti: infatti una moderata scarica, modificando la struttura delle proteine del veleno, può bloccarne l’effetto. Ed è possibile che anche l’Arca dell’Alleanza, che fulminava chi la toccava e “attivava” i quarzi dei paramenti sacerdotali, fosse un congegno elettrico. Ma questo è tutto. In base ai ritrovamenti, quella tecnologia, in tempi storici, ebbe solo utilizzi riduttivi e produsse effetti limitati, senza altre manifestazioni o sviluppi.

4. Immagine sopra: Il serpente di Mosè della Basilica di Sant’Ambrogio, a Milano.

Tuttavia, pare che non sia stato sempre così. Antichissimi testi narrano che in un lontano passato Ra, il primo “dio” e re dell’Egitto, possedeva un’arma mitizzata come mortale e invincibile: un “Raggio della Morte” azionato da una forza ignota, un “Fuoco Divino” derivato dal sole che aveva il potere di disperdere i nemici. Con il nome di urèo (“Serpente Divino”), “Occhio bruciante di Ra”, “Dio vivente” e vari altri nomi indicanti violenza, distruzione e punizione, quella potente energia era raffigurata come un aggressivo serpente, che compariva tra le insegne di guerra di Ra frontalmente sulla sua corona, in atto di assalire a fauci spalancate i nemici sputando fuoco e fiamme, con funzioni magiche e protettive. Era un efficace deterrente, che equivaleva alla folgore di Giove o ad altri strumenti di morte ostentati da molte antiche divinità. Se quella energia, putacaso, fosse stata nucleare, l’icona sul capo del re di sicuro sarebbe stata il “fungo” atomico. Si trattava invece con ogni verosimiglianza di energia elettrica, da una cui scarica lo stesso Ra venne accidentalmente colpito, con effetti la cui descrizione è molto simile a quella di una folgorazione elettrica: “batteva i denti, mentre tutto il suo corpo si scuoteva” (in un testo, Ra avverte suo nipote Gheb di “guardarsi dai serpenti annidati nelle viscere della terra”: si riferiva forse alle correnti telluriche, una delle possibili fonti di energia elettrica?). Questo avveniva nella notte dei tempi

5. Immagine sopra: “… Uzza stese la mano verso l’arca di Dio e la tenne, perché i buoi la facevano piegare. E l’ira dell’Eterno s’accese contro Uzza; Iddio lo colpì quivi per la sua temerità, ed ei morì in quel luogo presso l’arca di Dio.” (2 Samuele 6,1-8)

 

Ma a in seguito, a quanto pare, ci fu un grande cambiamento e quell’apparato, o perché troppo rischioso da gestire o perché comunque non era più ritenuto affidabile, fu dismesso e trasferito in un santuario-fortezza sul confine orientale. Fu là che Gheb, il nuovo re degli dèi, volendolo recuperare ne fu gravemente ustionato, mentre tutti gli altri astanti morirono di colpo, come è scritto sul naos di el-Arish. E fu sempre di là che Mosé riuscì invece a sottrarlo per farne l’arma letale del suo dio, di Yawè. Ciò non toglie che anche in seguito i regnanti d’Egitto continuassero a esibire l’urèo come simbolo di autorità, oltre che elemento decorativo. Ma la potenza della misteriosa forza distruttiva che esso rappresentava era ormai sparita per sempre dall’arsenale egiziano. Questo induce a a pensare che non solo le apparecchiature che la producevano fossero materialmente scomparse, ma che anche le basi teoriche e scientifiche di quel principio fossero state dimenticate. I pochi relitti superstiti venivano custoditi dal clero e pedissequamente trasmessi, ma pare che nessuno fosse più in grado di capirne il funzionamento. Divennero oggetti di culto e di magia, strumento di potere e nulla più. Come la sveglia al collo del selvaggio, che magari riesce a caricarla, ma non ha la più vaga idea di come e perché essa faccia quello che fa. I sacerdoti conoscevano solamente la maniera di far funzionare ancora quei semplici marchingegni; il loro compito non era quello di Ricerca-e-Sviluppo, bensì – per quanto possibile – la conservazione di tutte le segrete, riservatissime “arti perdute”.

 

 

Nell’antichissimo tempio della dea Hathor a Dendera si preservava e si tentava di mantenere in vita quanto restava di quelle conoscenze. Sarebbe perciò d’estrema importanza studiarne approfonditamente tutte le figure e i geroglifici, riprodotti da Auguste Mariette – Denderah (1870-1874) -, che sono oggi la sola documentazione completa, insieme a quella fotografica successiva, rimasta dopo il furto quasi totale dei rilievi nel 1970.

6. Immagine sopra: Roberto Volterri a Interlaken (Svizzera) dove c’è un bellissimo Museo con riproduzioni di molti oggetti del passato, comprese le “Lampade di Dendera”

E’ là, può darsi, la spiegazione di quelle inspiegabili “arti perdute”: di come in antico si padroneggiasse la forza di gravità, così da consentire lo spostamento di monoliti di centinaia di tonnellate, e di come si potessero lavorare agevolmente pietre durissime, quali il granito. Problema, quest’ultimo, che ho personalmente lungamente indagato, e che ha una possibile risposta: con l’aiuto della chimica.

 

 

Ma i rilievi ancora presenti (che presumibilmente, come pure quelli rubati, sono le targhe che indicavano i vari settori d’attività cui erano dedicati i laboratori delle cripte di Dendera) richiamano indubbiamente l’illuminazione elettrica, o l’emissione di raggi X: cioè l’elettricità, con l’avvertenza che è in sé pericolosa, perché in essi compare il dio Thot armato di coltelli. Vi si vedono uomini che maneggiano “ampolle”, lunghe – in proporzione – due metri, sorrette con due braccetti da pilastri Zed, o Jed, e simili a enormi lampade a incandescenza. Al loro interno un “serpente” – come se ne fosse il filamento – guizza dalla base del bulbo, contenuta all’esterno da un “portalampada” a forma di fiore di loto, dal quale sporge un cavo che lo collega ad una cassetta quadrata, mentre vari altri elementi di contorno potrebbero essere visti come batterie, accumulatori, generatori.

 

 

 

 

 

 

 

 

7-8. Immagini sopra: Due particolari dei bassorilievi di Dendera raffiguranti una sorta di “apparecchiature elettriche”, “batterie” e “cavi” che farebbero supporre avanzate conoscenze scientifiche.

 

L’immagine dello Zed, a sua volta, è stata interpretata come un trasformatore, o un isolatore, o addirittura un fulminatore. Ma le somiglianze possono essere fuorvianti. Non sempre le cose sono ciò che sembrano. Non ho mai creduto alle coincidenze; e mi sembra che le analogie che apparentano gli oggetti di Dendera alle moderne lampade a incandescenza siano fin troppo “coincidenti”. Dovremmo fare molta attenzione a non lasciarci trarre in inganno dalla forma esteriore delle cose, che non ne rispecchia necessariamente la funzione. Per di più, il fatto che gli attuali bulbi ed isolatori elettrici abbiano un certo aspetto non ci dà alcuna garanzia che i loro eventuali corrispondenti antichi, ammesso che siano esistiti, si presentassero allo stesso modo. Perciò sulle “lampade” di Dendera vorrei proporre un’altra chiave di lettura, per quel che ne so inedita.

 

TRASPOSIZIONE GRAFICA DELLE PRIMITIVE “PILE”

Secondo me quei pannelli indicano semplicemente, come ho detto, lo specifico settore al quale erano riservati i locali in cui compaiono, dove veniva conservata e mantenuta in funzione tutta la residua “dotazione” elettrica. Che non riguardava l’illuminazione. L’enigma irrisolto di che cosa fornisse luce negli ipogei, durante i lavori della loro decorazione, ha condotto a quell’ipotesi, ma si tratta di un abbaglio. Ci sono diverse ragioni per affermarlo. In primo luogo non c’è niente, negli antichi geroglifici, che dica che il Fuoco Divino emettesse luce, ma solo scariche ustionanti e mortali. Né da quei bulbi si vedono emanare raggi luminosi, come quelli che in altre immagini diffonde il Sole. E non furono mai, in realtà, trasparenti, perché il loro “spaccato”, che ha lo scopo di far vedere i “serpenti” che vi saettano dentro, impedisce di scorgere ciò che sta loro dietro, vale a dire le figure dei “tecnici” che li portano. Quindi quegli oggetti, se non erano trasparenti, non potevano certo essere né lampade né generatori di raggi X. Personalmente, ritengo che non fossero altro che la riproduzione, la trasposizione grafica delle primitive “pile”, irakene o no, colà preservate. I rilievi intendono, esattamente, descrivere quegli oggetti (quantunque non ne vengano mostrati i dettagli interni degli elettrodi, ma solo “l’effetto che fa”) e la loro azione. Quanto alle dimensioni, interpretarli come “lampadone” è ancora più improponibile. Non furono mai lunghi due metri. Sarebbero stati troppo fragili, e difficili sia da realizzare (a parte il problema di produrvi il vuoto) che da gestire; di una tale mole non si vede la ragione. Però era indispensabile, per evidenziare l’azione e la portata del fenomeno che avveniva al loro interno, mostrarli insieme agli esseri umani che li usavano, quindi – per forza – “a grandezza innaturale”; infatti, se fossero stati raffigurati nelle loro vere proporzioni, della misura più o meno delle mani degli uomini che li reggono, non si sarebbe compreso di che cosa si trattava; quindi l’unica soluzione era disegnarli “fuori scala”.

 

 

Ma l’osservazione più importante è un’altra. Occorre notare che, vedendo le “ampolle” come lampade, la scena evidentemente presuppone che la corrente giungesse, tramite il cavo, ad alimentarle provenendo da una fonte sconosciuta. Però, in un ambito così iniziatico e misterico, rendere noto per immagini solo un possibile uso pratico dell’elettricità, e non la sua arcana origine, sembra inessenziale e privo di senso. Molto di più invece ne acquista quel contesto se riconosciamo il suo vero oggetto: la rivelazione agli adepti, e solamente a loro, del grande segreto di quella misteriosa energia e da dove essa veniva generata. Cioè proprio all’interno delle “ampolle”. E’ là che – come osserviamo – si verificava la scarica: quella” Forza Magica” o “Serpente Divino” pronto alla folgorazione, identico al nostro attuale simbolo sui cartelli di Pericolo Corrente Elettrica. In questa ottica, seguendo un percorso esattamente opposto, la corrente prodotta nei bulbi veniva raccolta, probabilmente anche accumulata, e convogliata altrove per un qualche utilizzo tra cui, chissà, è ipotizzabile l’illuminazione. E non soltanto là, ma pure in altri templi egizi sono effigiate “lampade” simili, più piccole, che illustrano antiche pile nel pieno del loro funzionamento. Ultime tracce di quella straordinaria, arcaica conquista della scienza che, pur se declassata a magia, sopravvisse a lungo prima di andare misteriosamente perduta per sempre. Poi, molti millenni più tardi…

 

 

Quanto agli Zed su cui quegli oggetti posano, per parte mia non concordo con nessuna delle identificazioni proposte, a partire da “la colonna vertebrale di Osiride” (che colossale sciocchezza!), passando per “energia e stabilità”, fino a ravvisarvi un qualche elemento tecnico, quali isolatori o trasformatori. Anche qui, una visione ipertecnologica, unidirezionale, ha indotto alcuni in errore giustificando quell’equivoco. D’altronde, considerato che sotto questo riguardo tutti brancoliamo nel buio più assoluto, tanto vale avanzare una interpretazione diversa, basata su considerazioni lontanissime da quelle fino ad ora elaborate. Come sappiamo, gli egizi amavano molto servirsi di simboli per esprimere, più che aspetti materiali, concetti. Il pilastro Zed è senz’altro uno dei più importanti e presenti in quell’iconografia; la sua immagine, raffigurata innumerevoli volte in tutti i contesti possibili, sacri o profani, è forse la più corrente e diffusa in assoluto, e ha valenze universali. Come si può concepire che indichi vertebre o avvolgimenti elettrici?

 

 

 

LO ZED IMPERSONA L’UMANITA’

 

Lo Zed impersona l’UMANITA’. Racconta la lunga storia della vicenda e dell’evoluzione umana, riassume ciò che in Egitto la nostra specie fin dalle sue più profonde origini ha pensato, ha fatto, ha vissuto. Scaturito dalla Madre Terra, lo Zed s’innalza in quattro progressivi livelli temporali e di civiltà, ognuno troncato al culmine del suo successo e della sua espansione: a rievocare la sequenza di quattro epoche precedenti, e le quattro immani catastrofi da cui l’Uomo fu quasi annientato, rischiando la totale estinzione culturale; ma i pochi sopravvissuti ogni volta si rialzarono per riprendere la loro eterna scalata verso il Cielo. Non è solo lo Zed a testimoniarne. Tutti i popoli antichi ne hanno tramandato il ricordo. Lo Zed con i suoi quattro livelli simboleggia il succedersi dei quattro “mondi”o “soli”, le relative quattro distruzioni della Terra e la susseguente rinascita umana, esattamente come i quattro gradoni (benché ad essi spesso altri ne siano stati aggiunti, a indicare cataclismi minori) delle ziggurat mesopotamiche, e delle piramidi maya e azteche; e quelli, che sono sempre quattro, delle onnipresenti “scale” nelle immagini incaiche. E tanti altri esempi d’ogni provenienza potrei portare di quell’atavica coscienza della passata ciclica storia del mondo e dei suoi abitanti. Che include pure un presagio che ci riguarda: quello d’un prossimo analogo destino che porrà fine al nostro tempo, al tempo in cui oggi viviamo, il “quinto mondo”, il “quinto sole”. Quello che, in via di formazione, già inizia ad emergere e a mostrarsi al centro della sommità, spianata dall’ultima apocalisse, del quarto e più alto livello dello Zed.

 

 

Lo Zed dunque (inglobato, quasi a proteggerlo da ulteriori disastri, nel cuore della Piramide di cui è lo spirito e il “motore”) è un documento d’identità dell’Egitto e della sua gente. Afferma forte e chiaro la continuità, l’ininterrotto cammino che attraverso gli abissi del tempo connette e lega l’Egitto storico alle sue lontane radici, alle antiche razze scomparse. Quelle razze di cui si proclama discendente diretto, successore e legittimo erede del progresso culturale, di tutte le conquiste della conoscenza. L’immagine del pilastro Zed  allegata a questo scritto – molto più rivelatrice di quelle di Dendera – è un vero e proprio “brevetto”: è la rivendicazione di una proprietà intellettuale.

 

 

Mostra lo Zed che, doppiamente fornito di scienza (di cui la “croce” Ankh è simbolo, quasi identico allo strumento di misurazione sumero), alza ed esibisce la magica anfora che produce la corrente elettrica – e al suo interno il “serpente” che la anima – con un paio di braccia. Il punto in cui le braccia sono innestate al tronco indica la fase in cui la capacità di produrre quell’energia fu raggiunta: originariamente, dichiara lo Zed, all’epoca del “secondo mondo”, e lascio ad archeologi e geologi il compito di cercare di stabilirne il probabile periodo storico. Le figure di Dendera, molto posteriori, e che con quelle semplici pile illustrano tutta la superstite attrezzatura elettrica, la attribuiscono invece al “quarto mondo”, ma non c’è contraddizione. Esse documentano i tentativi in atto in quel luogo e a quell’epoca (dopo ben due successive catastrofi) di salvare il salvabile, di impedire che andassero definitivamente dispersi gli ultimi resti, anche se ormai quasi obsoleti, di quel grandioso sapere scientifico. Ma quei tentativi furono vani. Il Tempo ci ha chiuso in faccia le porte di accesso ai misteri dell’elettricità antidiluviana, insieme a quelli di tutte le altre progredite e stupefacenti conoscenze.

9. Immagine sopra: “… Quel giorno lo Zed innalzò di nuovo davanti al mondo intero le sue braccia, al quinto livello…”

 

Poi, molti millenni più tardi, accadde che qualche paziente scienziato giungesse a fare la stessa scoperta. Quel giorno lo Zed innalzò di nuovo davanti al mondo intero le sue braccia, al quinto livello, per celebrarla. Non dobbiamo abbandonare la speranza che, prima o poi, possa farlo ancora per annunciare il rinnovamento e la seconda vita anche di altri ancestrali miracoli.

(Lia Mangolini)

Tutte le immagini sono state fornite dall’autrice.

 

 

 

 

 

Spread the love

Un commento:

  1. Interessante questo articolo. Stimolanti e plausibili le ipotesi.
    Manca solo una bio dell’autrice (:-)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *