ADELE. Un racconto di Alessandra Filiaci.

 

ADELE.

Un racconto di Alessandra Filiaci

 

                 Tre amici in vacanza, zaino in spalla, l’itinerario e la mèta stabiliti da settimane. Il racconto di Gabriel cominciò così, il tono confidenziale assunse subito le sfumature dell’angoscia che aveva vissuto allora. Trent’anni erano trascorsi da quell’avventura, ma vividi i suoi ricordi scorrevano come un fiume in piena nelle sue parole, come se gli fosse impossibile soppesarle al lume della ragione. Mi fu subito chiaro che le sue emozioni lo trascinavano in un crescendo d’ansia, vincendo, insormontabili, il riserbo che normalmente manteneva, anche con chi, come me, lo conosceva da anni. Ogni riflessione ponderata era spazzata via dalla moltitudine di immagini che, mi era evidente, si susseguivano nella sua mente; soltanto qualche pausa rivelava la sua volontà di dare una direzione ai pensieri, come fosse un segugio che segue la pista fiutata, libero dalla mano del padrone.
    Quando ebbe finito di narrarmi la sua avventura, egli estrasse dalla profonda tasca del giaccone un taccuino dalla copertina di pelle rossa e me lo porse: <<Qui troverai i miei ricordi di quel viaggio, che scrissi qualche giorno più tardi. Non rammento per quale motivo volli prenderne nota, credo per liberarmi in qualche modo degli incubi che mi tenevano sveglio – e mi tennero sveglio a lungo – la notte; forse anche per testimoniare a me stesso che quanto vivemmo allora non era stato frutto di un sogno>>. Sfogliai quelle pagine ingiallite, scritte con una penna dall’inchiostro blu. <<Ti prego di averne cura; potrai restituirmelo quando vorrai. So che potresti ricavarne una storia da narrare a tua volta e al riguardo non ho nulla in contrario; tuttavia, se deciderai di farlo, ti chiedo di cambiare i nomi dei “protagonisti”. >>. Si interruppe e mi fissò come per capire se io avessi chiaramente inteso la sua raccomandazione. Lo rassicurai e dopo averlo ringraziato per la fiducia che riponeva in me gli dissi che di quel diario avrei fatto buon uso.
    <<Ho trovato il taccuino>> precisò quindi Gabriel <<in un vecchio baule pieno di libri e quaderni. Ho riletto quelle mie annotazioni ed è stato come rituffarmi nel passato, anche se, ovviamente, essendo trascorso tanto tempo non provo più le medesime emozioni, per lo meno non con la stessa intensità. Da quegli eventi ho cominciato a dare maggiormente ascolto alle mie sensazioni e, al contempo – chi se lo sarebbe mai aspettato? – a considerarle in modo distaccato. Certo, è impossibile per me dimenticare quell’episodio e sebbene oggi io possa affermare che, in un certo senso, ne sia uscito più forte, il ricordo di quanto accadde in quella casa fa tuttora sorgere in me qualche turbamento che tuttavia mi sono imposto di dominare. >> Sorrise timidamente. <<Ti sembrerà strano, ma forse un domani – chissà? – potrei tornare lassù. Ora sono anziano e credo che affronterei un’esperienza simile da un’altra prospettiva, indagherei, andrei a fondo della cosa.>>
 

    Quello che segue è il resoconto dei fatti che ho ricostruito sulla base di quanto Gabriel mi raccontò e del contenuto del suo diario… e gli imprevisti sviluppi relativi.
 
    Era un’estate della fine degli anni ’70; l’opprimente caldo agostano poteva finalmente avere fine, lassù, su quelle fresche cime dell’Abruzzo, dove minuscoli paesi si inerpicano su colline alberate, fra rocche e vestigia di un passato remoto che ancora si respira nelle piazze e nei vicoli stretti da cui traspirano palpabili antiche superstizioni e credenze popolari, radicate profondamente in quelle genti d’altura.
    Quando i tre amici arrivarono in quel borgo ameno, verso mezzogiorno, prima di dirigersi verso l’emporio nella piazza principale, gestito dalla proprietaria della casa che avevano preso in affitto per le loro vacanze, girovagarono a lungo nei viottoli che da essa si dipartivano per apprezzarne le decadenti costruzioni in pietra che testimoniavano la vita senza pretese condotta nei secoli dai loro abitanti. 
Era come se il tempo si fosse fermato: le botteghe d’una volta erano più numerose dei negozi di moderna concezione e i loro piccoli e scuri ambienti erano illuminati da rari faretti che convogliavano la luce sulle creazioni artigianali esposte nelle vetrine su mensole di legno che, anch’esse, mostravano l’usura del tempo. Intorno all’ora del vespro, i tre villeggianti si ritrovarono davanti all’emporio. Superata la soglia, si rivolsero ad una anziana donna intenta a scrivere su uno spesso foglio di carta di colore giallo paglierino. <<Salve, è lei la signora Maria?>>, domandò uno di loro.
La donna alzò gli occhi, rispose con una flebile affermazione e subito aggiunse: <<Siete gli studenti venuti dalla capitale, immagino, un attimo e vi conduco su, alla casa>>. Rassettato il piano di lavoro, ella si avvicinò con calma a Gabriel, lo guardò con curiosità, quindi spostò lo sguardo sugli altri due. Sembrò scrutargli nell’animo, con i suoi piccoli occhi neri, e Gabriel fu assalito da una poco gradevole sensazione di disagio. <<Siete molto giovani, vedo. Bene, ora vi accompagno. Per qualsiasi vostra necessità non esitate a contattarmi al numero di telefono del mio esercizio, aperto da mattina a sera; nel caso fossi impegnata con dei clienti e non potessi rispondere, richiamatemi; in ogni caso>> li rassicurò l’anziana riavviandosi la ciocca di capelli grigi che le ricadeva sulla fronte <<potete sempre trovarmi qui, sono in negozio anche la domenica.>> Gabriel soltanto in quell’istante notò che ella indossava una sorta di vestaglia a fiori chiusa da una cintura del medesimo tessuto che le girava intorno alla vita, con due tasche capienti sul davanti. Calzava delle vecchie ciabatte di pelle nera col tacco basso e aveva i capelli legati in una grossa e lunga crocchia, fissata con uno spillone dietro la nuca; solo la ciocca scomposta sulla fronte era sfuggita da quell’acconciatura casalinga. In contrasto con il semplice abbigliamento, diversi bracciali preziosi le cingevano i polsi ed una serie di vistosi anelli d’oro di varia foggia le ornavano le dita delle mani, ad eccezione dei pollici; uno di essi, in particolare, risaltava per la singolare iridescenza della grossa gemma del colore dello smeraldo che vi era incastonata.
Gabriel fu distratto dalle sue osservazioni quando la donna li invitò a seguirla. Con passo deciso, ella li condusse su per un viottolo malandato, sul quale si affacciavano delle case dai portoni di legno consumato dal tempo, borchiati di ferro e dalle antiche finestre davanti alle quali spiccavano grandi inferriate arrugginite.
Salirono per un bel po’ per quella stradina, finché arrivarono davanti ad una grande costruzione solitaria che dominava il paese. Le mura erano state tinteggiate di fresco, ma la pittura non riusciva a nascondere le grosse pietre che erano state usate per erigere quell’antica dimora che – confidò la donna ai tre amici – risaliva a trecento anni prima. L’anziana si frugò nella tasca destra ed estrasse un mazzo di chiavi, lunghe una ventina di centimetri ciascuna, ne prese una e la infilò nella toppa. Aperto il portone, Gabriel rimase di stucco: il salone nel quale si accedeva era immenso, la luce del primo pomeriggio lo inondava, facendone apprezzare immediatamente un gran numero di quadri antichi di differenti grandezze che ne tappezzavano i muri e i vari mobili che lo arredavano, scuri e all’apparenza di varie epoche.
 <<Prego, accomodatevi, vi conduco subito nella vostra camera. Come già sapete, siete i soli affittuari per il periodo che avete scelto di trascorrere qui>> disse la donna voltandosi verso i tre ospiti. Fece loro strada salendo su per una vecchia scala, di legno scuro anch’essa, fino al primo piano. <<Le altre camere sono chiuse, anche quelle di sopra>>, affermò l’anziana raggiunto il pianerottolo. <<Il bagno funziona perfettamente, è stato ristrutturato di recente; lo troverete in fondo al corridoio>> aggiunse ella indicando una lontana porta sulla sinistra. <<La cucina è al piano terra, non potete sbagliare.
Nel frigorifero troverete già qualche bevanda che spero sia di vostro gradimento e dei salumi nostrani, sul tavolo una pagnotta; ho pensato che forse non avreste avuto voglia di fare la spesa o non vi foste organizzati per la cena>>.

   I tre vacanzieri la ringraziarono, la donna sganciò la chiave del portone e la allungò a Gabriel e con un saluto della mano si allontanò, ridiscese le scale e si chiuse l’uscio dietro le spalle.
    Rimasti soli, i ragazzi entrarono nella stanza: tre letti erano accostati ciascuno ad una parete; Gabriel si diresse verso quello accanto alla porta, vi gettò sopra lo zaino, mentre gli amici, come se si fossero tacitamente messi d’accordo, scelsero uno quello sulla sinistra e l’altro quello sulla destra. Sotto alla finestra, posta molto in alto, era posizionato un vecchio armadio con due ante; all’interno vi trovarono alcune stampelle, una bugìa, un pacchetto di candele bianche, una scatola di fiammiferi e tre coperte di lana pesante.
    <<Ottimo, mi sembra sia tutto ok>>, disse uno degli amici rivolgendosi gongolante agli altri, <<per stasera non abbiamo problemi; andiamo a mangiare qualcosa, gli zaini possiamo svuotarli più tardi>>.  
    Una volta che ebbero cenato, dando fondo alle provviste, i tre studenti, stanchi per il viaggio, si trascinarono su per la scala fino al primo piano. Uno di loro si diresse verso il servizio in fondo al corridoio, mentre gli altri due varcarono la soglia della camera da letto e si buttarono, tutti vestiti, sui rispettivi giacigli. Gabriel si addormentò subito, senza avere il tempo di spogliarsi.
Quando aprì gli occhi, vide gli amici che dormivano saporitamente sotto le lenzuola, illuminati dalla splendente luce della luna. <<Abbiamo dimenticato di chiudere le persiane>>, pensò. Quindi si alzò per andare ad accostarle; troppa luce – temeva – non lo avrebbe fatto riaddormentare facilmente. Che cosa l’aveva svegliato? Si domandò. Non sapeva. Avviandosi verso la finestra gli parve di udire un fruscìo, come di qualcosa che strisciasse sul muro. Si fermò, si guardò intorno, ma non vide nulla. Un altro fruscìo, questa volta più intenso. Il rumore proveniva dalla parete di sinistra.
Vi si avvicinò in punta di piedi per non svegliare l’amico che dormiva, in posizione fetale, la testa che emergeva dalle spesse lenzuola bianche stirate di fresco. Guardò con attenzione. Nulla. Decise di non dare peso alla cosa e socchiuse le persiane, lasciando appena uno spiraglio, giusto quanto ritenne gli permettesse di non inciampare sugli zaini gettati a terra, e si rimise a letto. Gli parve d’udire un rumore accanto al giaciglio, ma era troppo stanco per indagare e non voleva accendere la luce della lampada che era sul suo comodino per non correre il rischio di svegliare i dormienti. Si sedette sul letto, si sfilò le scarpe, tastò con le mani il cuscino, poi si infilò sotto le lenzuola. Il caldo del giorno aveva lasciato il posto ad una piacevole frescura. Gli parve di essersi addormentato da poco, quando fu destato da un sussulto, come se qualcuno si fosse seduto accanto a lui. Gli sembrò di vedere – o forse già era tra le braccia di Morfeo? – una figura umana che si aggirava per la stanza, una esile forma di donna, un’ombra che pareva avanzare sfiorando il pavimento. Un tenue e prolungato lamento proveniva da quell’ombra, alternato ad alcune parole di cui non riusciva a comprendere il senso. Gabriel tese le orecchie, ma ogni suo sforzo per rimanere sveglio fu sopraffatto dalla stanchezza. Cadde in un sonno profondo.

    Il mattino dopo, Gabriel raccontò agli amici dell’apparizione notturna. Essi si guardarono l’un l’altro, poi lo osservarono e scoppiarono in una sonora risata. <<Non ci vorrai far credere che l’anziana signora sia venuta a controllarci, vero?>> disse uno di loro rivolgendosi a Gabriel con aria di scherno. Gabriel tacque, scuotendo il capo, quindi propose di scendere subito in paese.
    Dopo avere fatto una veloce colazione in un bar e acquistata qualche provvista, Gabriel volle tornare dalla loro affittuaria. Entrati nel suo negozio, la trovarono di nuovo intenta a scrivere. <<Ben alzati ragazzi, avete dormito bene?>> domandò con fare ironico l’anziana, posando la matita sul foglio. <<Buongiorno a lei>> rispose uno di loro, <<sì, tranne Gabriel che ci ha raccontato di avere sentito dei rumori>>. La donna fissò Gabriel, sorrise, e come se si sentisse in dovere di rassicurarlo esclamò: <<Dei rumori? È possibile, la casa è vecchia>>. Gabriel non le riferì nulla della figura di donna, non voleva essere deriso di nuovo. Salutò, si avviò verso l’uscita, seguito dagli amici, e si diresse verso la tabaccheria lì accanto per acquistare delle sigarette.
    Seguendo un impulso irrazionale, Gabriel si rivolse all’omino in piedi che lo aveva servito: <<Mi scusi, lei ha mai sentito parlare, da qualche affittuario della casa sulla collina, di inspiegabili apparizioni e rumori notturni?>>
L’omino alzò un sopracciglio e a Gabriel parve che un sottile, mal dissimulato ghigno si fosse stampato sulla sua faccia. Il tabaccaio sembrava tentennare. Fece due passi indietro, abbassò lo sguardo, quindi lo rialzò guardando dietro le spalle di Gabriel. Sembrava stesse pescando nella memoria. <<Può darsi…>> rispose laconicamente, per poi aggiungere: <<se domandate alla signora Maria, la proprietaria, vi saprà dire di più>>. <<La signora Maria? Gliel’ho domandato e ha risposto che la casa è vecchia e…>>. <<Vecchia, vecchia>> lo interruppe l’omino <<Sì, vecchia è vecchia, come i suoi abitanti>> aggiunse il tabaccaio in maniera sarcastica. <<Si mormora che qualcuno sia rimasto molto affezionato alle sue antiche mura di pietra;>> proseguì <<la signora Maria vi ha detto che sono pietre da riporto? Provengono dal castello diroccato in cima, più in alto della casa, quello che senz’altro avrete visto, immerso nella vegetazione incolta. In realtà ne rimane ben poca roba, alcuni pietroni e qualche sasso.>> Gabriel e i suoi amici si guardarono, poi Gabriel rispose: <<No, la signora Maria non ci ha spiegato niente.>> <<Le rocche antiche hanno sempre qualche visitatore, lo sanno tutti. Strano che Maria non ve lo abbia detto>>, proseguì il tabaccaio, imperterrito.
L’omino sembrava divertirsi molto, mentre i tre affittuari parevano confusi; Gabriel in particolare si sentiva stralunato, ma rimase in silenzio. Ringraziato il tabaccaio, i tre ragazzi lo salutarono, uscirono dal negozio e come per una tacita intesa si affacciarono all’emporio.
La porta era chiusa, perciò con passo lento s’incamminarono verso l’abitazione che li aspettava.
    Le parole del tabaccaio furono per i ragazzi oggetto di riflessioni ad alta voce per tutto il resto della giornata. La sera, dopo cena, su insistenza di Gabriel decisero di lasciare acceso uno dei lumi della camera da letto, <<nel caso si presentasse qualche ospite inatteso>> disse ridendo uno degli amici di Gabriel, quello che passava per essere il più razionale dei tre. <<Mica attraverserà i muri?>> fece l’altro, con una sfumatura di ironia nella voce rivolgendosi a Gabriel. <<Ne so quanto voi>> rispose l’interpellato, <<vedremo come si svilupperanno gli eventi stanotte. E chiunque di noi sente qualcosa ovviamente avverte gli altri.>>
   I tre si sdraiarono sui giacigli ancora disfatti, ma sebbene stanchi – di una stanchezza inspiegabile a dire il vero, dal momento che durante il giorno non si erano affaticati troppo – non riuscirono a prendere subito sonno. L’ultimo di loro che si addormentò fu, neanche a dirlo, Gabriel, il quale continuava a girarsi e rigirarsi nel letto, sotto le lenzuola spiegazzate che gli lambivano la fronte. All’insonnia si accompagnò, per qualche minuto, un pizzicore all’altezza del mento, che poi si diffuse intorno ai baffi per ritornare tutt’intorno alla barba. Si grattò delicatamente la pelle, quindi, senza avvedersene, fu preda del sonno. Sognò che qualcuno gli tirava insistentemente le lenzuola ed il fastidio lo fece svegliare. Le lenzuola erano cadute sul pavimento, soltanto la parte infilata sotto al materasso era rimasta al suo posto. Gettò uno sguardo ai due amici e fu più forte di lui: <<Insomma, non avete altro da fare?>> gridò.

    Brando aprì gli occhi:<<Che cos’hai da strillare come un’aquila?>> urlò a sua volta, adirato. <<Dormivo così bene!>>
    <<Dormivi? Piuttosto, sei tu che mi hai tirato giù le lenzuola?>>. Nel frattempo anche Leo si era destato, si sfregò gli occhi ed esclamò veemente: <<Ma ti pare questo il momento di scherzare? Vogliamo dormire!>>.
<<Non mi sembra foste caduti in un sonno tanto profondo, visto che avete tutto questo fiato>>, rispose Gabriel.
<<Ma smettila, Gabriel, e rimettiti a dormire>> disse imperioso Brando. <<Ecco, rimettiti a dormire>> gli fece eco Leo. Gabriel era esterrefatto: oltre al danno, la beffa. Sentì montare la rabbia, ma desistette dal replicare e sprofondò la testa nel cuscino. D’istinto allungò un braccio verso il lume, spense la luce e chiuse gli occhi. Non sapeva quanti minuti fossero trascorsi, ma non riusciva a riaddormentarsi, si sentiva agitato e insieme confuso e stizzito, quando, improvvisamente, le lenzuola vennero strattonate in fondo e poi strappate via all’altezza dei suoi piedi. <<Adesso basta!>> esclamò, riaccese la luce e constatò che le lenzuola ora erano completamente a terra. Strabuzzò gli occhi. Esse erano avvolte su se stesse, come a formare una sorta di spirale, come fossero degli spaghetti inforchettati. <<Brando, sei stato tu?>> domandò all’amico e poi all’altro: <<Oppure tu, Leo?>>. Gli amici, inviperiti, lo presero a male parole. <<Guardate allora, guardate anche voi e spiegatemi, se non è opera vostra, chi possa avere fatto questo>>.
   Gli amici si portarono finalmente seduti e osservarono la meravigliosa costruzione di lenzuola sgualcite. Erano chiaramente perplessi. Tutti d’accordo si vestirono, scesero in cucina, si lavarono velocemente mani e viso; poi, Brando e Leo spiluccarono qualcosa all’impiedi, mentre Gabriel, impaziente, continuava ad incitarli di far presto. Il sole si era già alzato, la signora Maria era mattiniera e mancava ormai poco all’apertura dell’emporio. Gabriel si offrì di salire per prendere gli zaini. Salì i gradini lentamente, tendendo l’orecchio: nessun rumore. Arrivato alla camera gettò una rapida occhiata all’interno: gli sembrò che nulla fosse mutato. Con passo felpato entrò nella stanza e recuperati gli zaini, cercando di distogliere lo sguardo dalle lenzuola avviticchiate, uscì velocemente chiudendosi la porta alle spalle. Tornato in cucina, Gabriel trovò gli amici ancora in piedi intorno al tavolo, ora frementi, e li esortò a muoversi immediatamente: non voleva rimanere un minuto di più in quella casa maledetta. Mentre Leo e Brando si avviavano con passo deciso verso il portone, Gabriel stava per prendere la chiave posata sul tavolo, quando un colpo secco rimbombò all’improvviso: proveniva dal piano superiore. Ne udirono subito un altro, e un altro ancora. Si guardarono come se cercassero di trovare una spiegazione l’uno negli occhi degli altri. Attesero, trattenendo il respiro, guardando in direzione del soffitto. Silenzio. Poi, di nuovo, altri colpi in sequenza e quindi un fragore, seguito da altri colpi: pareva che qualcosa di pesante avesse iniziato a percorrere il pavimento da un lato all’altro della stanza sopra di loro.
Improvvisamente, così come erano iniziati, i colpi cessarono.

    <<Che facciamo?>> domandò Brando esitante. Gabriel fece un profondo respiro, poi, sforzandosi di mostrarsi risoluto, disse, avviandosi verso la scala: <<Andiamo a vedere>>.
    Posati gli zaini a terra, lentamente i tre affittuari salirono e si fermarono davanti alla loro camera. Nessun segno di vita. Nulla di nulla. Un colpo secco li fece sussultare. <<Di nuovo?>> si allarmò Gabriel, col cuore in tumulto. Gli amici avevano spalancato gli occhi e lo fissavano, come a cercare una risposta sensata a quell’immotivato rumore. <<Che facciamo, entriamo?>> chiese Gabriel. <<Sì, ma con cautela>> assentì Brando.
    Posata la mano sulla lucida maniglia d’ottone Gabriel l’abbassò lentamente. Respirando a fondo, aprì la porta, gli amici di fianco a lui, come a dargli manforte. Quello che videro sorpassò ogni loro più fervida immaginazione. I letti erano al loro posto, ma tutte le lenzuola erano impilate verso l’alto le une sulle altre, i cuscini sul pavimento, come se qualcuno vi avesse camminato sopra. E l’unica e pesante sedia di legno viaggiava da sola facendo circonvoluzioni nella loro camera come se qualcuno si divertisse a spostarla senza darle una direzione precisa. Roteava su se stessa, si inclinava, scorreva sul pavimento come se fosse mossa da qualcuno – invisibile – dalla forza erculea.
    Attoniti, i tre amici erano incapaci di parlare e di muoversi. Guardavano lo spettacolo come se fossero diventati di granito, la bocca aperta. Le ante dell’armadio presero ad aprirsi e a richiudersi da sole, più e più volte, come se fossero scosse da un forte terremoto.
    I tre, sconvolti, si portarono quasi all’unisono le mani alle orecchie ed istantaneamente tutto si fermò. Leo e Brando erano paralizzati dalla paura, soltanto Gabriel trovò il coraggio di muoversi. <<Svegliatevi, andiamo!>>, urlò, e quel richiamo fu sufficiente a scuotere gli altri due che si precipitarono a rotta di collo dietro di lui giù per la scala. Afferrati al volo gli zaini, senza curarsi di prendere la chiave ancora sul tavolo della cucina e di chiudere il portone, corsero fuori lanciandosi diretti verso il paese. Senza fiato, si catapultarono nel negozio di Maria, la quale, vedendoli stravolti, domandò loro la causa di tanta agitazione. <<E ce lo dica lei, perché!>> esplose Gabriel. <<Perché non ci aveva detto nulla del fantasma?>> <<Fantasma?>> rispose la donna, tranquillamente, come se le fosse stata rivolta una domanda senza senso.
<<Abbiamo finito qui,>> continuò Gabriel <<in quella casa maledetta non rimetteremo mai più piede!>>. Gabriel girò i tacchi e uscì dall’emporio, seguito dagli amici. <<Un momento>>, esclamò a voce alta, dirigendosi verso la tabaccheria, <<qualcuno, ora, ci darà una spiegazione!>>.

   Il solito omino, dietro al bancone, sistemava sugli scaffali alcune stecche di sigarette. Quando si voltò, vedendoli in quelle condizioni, con i capelli scarmigliati, i vestiti madidi di sudore e le facce paonazze, esclamò, come se già sapesse tutto:<<Adele! Adele, è sempre la stessa storia!>>. <<Adele chi?>> indagò Gabriel. <<Altri prima di voi ne hanno percepito la presenza, qualcuno sostiene di averla pure veduta>> continuò il tabaccaio. <<Chi è Adele?>> insistette Gabriel, gli amici in silenzio in attesa anche loro di una risposta convincente.
<<Maria ha sempre lo stesso vizio, purtroppo; non racconta mai della donna che secoli fa abitava nel castello e vi morì tragicamente, dopo essere stata abbandonata dallo sposo la notte stessa delle nozze. Ve lo avevo detto io, la casa è vecchia; è stata costruita con le pietre della rocca dove Adele dimorò pochi mesi dopo la fuga del marito, senza trovare pace, e ormai sconvolta dal dolore e dalla follia finì per togliersi la vita gettandosi dalla torre più alta in una notte di plenilunio…>>.
    Gabriel mi aveva confidato che quell’esperienza li cambiò profondamente. Essi continuarono a vedersi all’università e per qualche tempo anche fuori; poi, lentamente, i loro incontri si diradarono, sempre più, e finirono col perdersi di vista. Qualche anno più tardi fu informato da una conoscenza comune che Brando era diventato sacerdote, mentre Leo era continuamente in viaggio alla ricerca di sciamani, stregoni, curanderos. Solamente lui, Gabriel, aveva proseguito gli studi di economia e, trovato un impiego, non ancora trentenne si era sposato.
 
    Dopo avere ascoltato il racconto di Gabriel nei giorni che seguirono lessi con attenzione il suo diario e la mia curiosità mi portò, di lì a poco, a compiere qualche ricerca, ma dai documenti che riuscii a reperire non ne scaturì nulla che potesse confermare la sua testimonianza. Per uno strano gioco del destino, qualche settimana più tardi il caso – sempre che il caso esista – volle che incontrassi un’anziana signora che avevo conosciuto qualche anno prima, oriunda proprio di quel paese, la quale si era trasferita da un decennio nella mia città.
Ai soliti convenevoli seguì una mia timida incursione nei suoi ricordi d’Abruzzo, alcuni dei quali mi aveva già confidato. <<Adele? Ma certo, in paese la sua storia, per quanto se ne sa, è ben nota; viene tramandata di generazione in generazione.
Soltanto in rari casi, però, i miei conterranei ne parlano agli estranei, figurarsi se fanno il minimo cenno all’altra Adele>>. <<All’altra Adele?>> le feci eco. La donna inclinò il capo in avanti come cenno di assenso, poi mi guardò dritto negli occhi. <<Esatto. Adele>> continuò <<era il nome anche di una donna che visse in quella casa solitaria un centinaio d’anni or sono. Ella aveva una sorella, che si era maritata presto con un pastore di un paese vicino e che con Adele non era mai andata d’accordo per via di quelle che, la sorella, definiva stupide credenze.>> Le parole della mia conoscente mi fecero drizzare le orecchie. <<Aveva presto preso le distanze dai traffici di Adele, nota a tutti in paese per le sue capacità di indagare il futuro con il crine dei cavalli, togliere il malocchio e preparare filtri d’amore.
Molti si rivolgevano a lei, benché nessuno lo dicesse apertamente, ma come sai in un piccolo centro un segreto ha vita molto breve. Insomma, andando al nocciolo della questione, Adele un giorno fu vista arrampicarsi su per il pendio fino al castello da una donna che abitava qualche centinaio di metri verso valle e si era inerpicata fin lassù per cercare – a suo dire – una gallina che era scappata dal pollaio. Pensò, la donna, che Adele andasse alla ricerca di qualcuna delle erbe che usava per i suoi intrugli. Il giorno seguente, non vedendo il fumo uscire dal camino della decrepita abitazione della strega – la indicavano tutti così, ma nessuno, capirai, osava chiamarla in quel modo quando si trovava in sua presenza – se ne domandò il motivo, considerato il freddo intenso di quell’inverno particolarmente inclemente. Trascorsi altri giorni, la medesima donna, constatando che la situazione non era mutata, ritenne doveroso informarsi direttamente da Adele, e dopo avere bussato ripetutamente al suo portone non ricevendo risposta si allarmò. Scesa di corsa dalla collina, si recò da una sua amica, le narrò i fatti, quindi di comune accordo esse decisero di recarsi fin lassù per un controllo: se Adele ancora non avesse dato segni della sua presenza, in qualche modo sarebbero entrate nella sua casa.

 

Inutile dire che nessuno rispose ai ripetuti colpi al portone. Fattesi coraggio, una delle due mise mano alla maniglia e, con stupore di entrambe, il portone si aprì. Adele chiudeva sempre a chiave quando usciva. Le due donne entrarono nella dimora: tutto era buio, le persiane chiuse non permettevano di vedere alcunché. Abituatisi i loro occhi a quella oscurità videro una tenue luce provenire dal piano superiore. Salirono fino a quella che esse sapevano essere la sua camera da letto, bussarono alla porta socchiusa e rimasero in vigile attesa per qualche minuto. Guardandosi negli occhi, come se si fossero lette nella mente posarono ambedue una mano sulla porta e la aprirono del tutto. Dalle imposte semi chiuse della finestra che non poteva vedersi dalla strada filtrava la luce del mattino.
Quello che scoprirono le fece trasalire: Adele giaceva distesa sul suo misero giaciglio, le mani incrociate sul petto; fra le dita ossute emergeva una splendida, grande gemma verde, che le due donne non avevano mai visto prima, e accanto a lei era posato un piccolo scrigno di metallo argenteo, aperto e vuoto.>> La donna che mi stava narrando queste incredibili vicende si fermò per riprendere fiato. <<Le circostanze della morte di Adele, per quanto mi è noto, non sono mai state chiarite.>> aggiunse. <<Forse fu un malore; o forse – chissà? – una delle sue malie non andata a buon fine, ipotizzarono alcuni dei miei compaesani. La casa rimase abbandonata per diversi decenni, finché una delle nipoti della sorella di Adele vi fece fare dei lavori di ristrutturazione per poterla affittare. Di voci di strane presenze se ne sono rincorse parecchie nel tempo. Nessuno ne parla apertamente, per non far scappare i papabili locatari.>>

    Finalmente il racconto di Gabriel ed i pochi dati che ero già riuscita a raccogliere per mio conto si integravano con altre informazioni che mi parevano interessanti a tal punto da farmi decidere di indagare di persona recandomi sul posto.
    Ho già contattato l’attuale proprietaria della casa. Sarò la sola affittuaria per il periodo che ho prenotato – e non scelto a caso, ovviamente. Ho intenzione di addentrarmi nei misteri che avvolgono quella vecchia dimora. Se essa è davvero infestata da un’anima che non trova pace lo scoprirò. E quando ne saprò di più, siatene certi: vi aggiornerò senz’altro.
(Fine)
Alessandra Filiaci (*)

(*) Scrittrice, poetessa, Reiki Master, collaboratrice di periodici e aperiodici a diffusione nazionale ed internazionale, cartacei e on line. Alessandra Filiaci è ideatrice della “Tarosofia”, sistema di studio e di utilizzo creativo dei Tarocchi, sui quali ha pubblicato articoli, poesie e due saggi: “I Tarocchi. Il Sentiero degli uomini e degli dei” (Bastogi Editrice Italiana, Foggia 1999) e “I Tarocchi della Nuova Era. Percorso spirituale, divinazione, applicazioni ludiche” (Terre Sommerse, Roma 2017). E’ autrice anche di: “Reiki – Il cuore e la mente. Esperienze e scoperte in un diario di viaggio” (Terre Sommerse, Roma 2020) e della raccolta di poesie dal titolo: “Oltre il tempo e lo spazio” (Terre Sommerse, Roma 2018).

 

– Tutte le immagini sono state fornite dall’autrice.

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