Il mistero della “Mummia di Zagabria”; di Domenico Pelino.

UNA MUMMIA CHE CI PARLA…..

Domenico Pelino ci guida alla scoperta dei segreti della “Mummia di Zagabria”.

Dopo un altro viaggio alla ricerca di simbolismi, sono giunto a Zagabria, splendida città multietnica nata sulle sponde del fiume Sava, protetta dai venti freddi del nord dal monte Medvednica, centro di intersezione geografico, culturale, storico e politico tra Occidente ed Oriente. Racchiude in sé il potere politico- amministrativo- culturale ed economico della Croazia.
Passeggiando tra i quartieri della città si notano le splendide facciate dei palazzi che le diverse realtà etniche hanno reso ancor più armoniosi. Sono stati rinvenuti reperti che attestano la presenza di insediamenti umani già dal 35.000 a.C., successivamente arrivarono gli illirici, poi i Celti intorno al IV sec. a.C. ed in seguito fu la volta dei Romani.
La città come la vediamo oggi, fu fondata nel Medioevo su due colli: il Gradec, ove si trova la “Città Alta”, ed il Kaptol dove insistono la splendida cattedrale neogotica e la cinta muraria.

Del periodo medievale restano sia la Torre Lotrscak, dalla quale da circa un secolo un colpo di cannone segnala le ore 12.00, che la Porta di Pietra ove si trova l’icona di Santa Maria protettrice della città, la chiesa di San Marco ed ancora le mura di cinta. Con il passare del tempo ed il passaggio di altre civiltà, la città si estese nella parte bassa, per diventare il centro commerciale ed economico.
Ancora oggi la zona nuova (Città Bassa) è piena di centri commerciali e punto d’incontro di residenti e non, divenendo anche la città più ricca di parchi ed aree verdi, come poche altre metropoli europee. Oggi, sia la parte bassa, che la parte alta sono collegate, oltre che dai caratteristici viali e dalle piazze colorate da ombrelloni rossi dei vari mercatini, dalla funicolare più breve al mondo. Infatti la corsa ha una durata di soli 55-64 secondi.
Nella Città Bassa troviamo il Museo Archeologico dove si torva il mistero che ci ha spinti sino a qui.


Dal 1947 vi è infatti conservata la misteriosa mummia di una donna, vissuta nell’egizia Tebe nel Periodo Tolemaico (IV-I secolo a.C., ovvero quando l’Egitto era retto da una dinastia greco-macedone discendente da Tolomeo, generale di Alessandro Magno), avvolta in un telo di lino sul quale è riportato uno dei più estesi testi etruschi.
Si tratta della cosiddetta “Mummia di Zagabria”, che fu portata in città nel XIX secolo dal nobile Mihail de Brariae come trofeo dal suo viaggio in Egitto, fatto molto comune per quel periodo. Tra l’altro all’epoca la Croazia faceva parte dell’Impero Asburgico e la mummia, giunta in Europa caricata su una nave, era transitata per il porto di Trieste.
Non fu la prima (e nemmeno l’ultima ) volta che mummie ed altri reperti egizi transitarono per il grande porto asburgico della città alabardata.
Altre mummie e testimonianze della Civiltà dell’Egitto ancora oggi fanno parte delle collezioni esposte nei Musei triestini.
L’intera collezione civica di egittologia è esposta presso il Civico Museo di Storia ed Arte, ed è formata da quasi un migliaio di pezzi giunti dall’Egitto appunto nell’Ottocento e nei primi anni del XX secolo.
La ricca borghesia imprenditoriale locale era da sempre attratta da oggetti provenienti da quel lontano paese e civiltà. Una moda, ricordiamolo, giunta in Europa a seguito delle scoperte avvenute a cavallo tra il XVIII ed il XIX secolo.
“Nell’ampio e luminoso spazio della grande sala, intitolata alla professoressa Claudia Dolzani, i reperti di grandi dimensioni sono accostati a quelli piccoli, organizzati per classi e tematiche.


Accanto, due nuove salette (dedicate alla memoria del prof. Giorgio Costantinides) presentano i sarcofagi concessi in deposito dal Museo Civico di Storia Naturale di Trieste insieme a materiali greco-romani, copti e islamici, che completano il panorama sull’antica civiltà dei faraoni. Le mummie umane sono tre, tutte e tre esposte in sarcofagi in legno stuccato e dipinto” leggiamo nel sito del Museo, relativamente alla sezione dedicata , appunto, all’Antico Egitto “La mummia di Pa-sen-en-Hor è intatta, ancora fasciata nelle sue bende (e solo le indagini radiografiche hanno permesso di indagarne il corpo); una femminile, ospitata ora nel sarcofago del sacerdote Pa-di-Amon, è stata parzialmente liberata dalle bende, mentre quella di epoca greco-romana si vede completamente sbendata. Particolarmente preziosi sono i sarcofagi che le contengono, inquadrabili nella XXI-XXII dinastia, con scene di adorazione degli dei, della creazione del Mondo, della Pesatura dell’Anima, e delle divinità che “fanno protezione” al defunto. I testi in geroglifico ripetono le formule rituali e perpetuano il nome dei loro antichi proprietari.

La collezione espone inoltre altri due sarcofagi: uno grande in granito di Assuan (che ha un peso complessivo di più di sei tonnellate) appartenuto allo “scriba reale, preposto al tesoro del re, porta flabello alla destra del Signore delle Due Terre” Suty-nakht. Questo monumento è noto come sarcofago Panfili, dal nome della famiglia triestina che lo donò al Civico Museo. Completa la serie un sarcofago in pietra bianca appartenuto alla defunta Aset-resty, vissuta durante la XXVI dinastia.
La collezione egizia triestina possiede quattro fogli di papiro di eccellente qualità, provenienti da un libro dei Morti, o Libro dell’uscire al giorno, dello “scriba, contabile dei buoi del tempio di Amon” Imen-hotep; opera della XVIII dinastia (XV secolo a.C.).
Notevole la serie completa dei quattro vasi canopi in alabastro egiziano di epoca saitica (XXVI dinastia). I coperchi raffigurano le teste dei quattro figli di Horus, geni preposti alla conservazione dei visceri della defunta Tannahub, “signora della casa”.

Tre sono le stele o monumenti funerari in pietra: due provengono probabilmente da Abido, una dello scriba Sa-Hathor, l’altra dedicata ai due defunti Sa-Hathor e Itefankhu, raffigurati insieme ai loro famigliari (sono inseribili nella produzione tra la fine della XII e la XIII dinastia – XVIII sec. a.C.). La terza è appartenuta al capo della polizia di confine di nome Imen-em-inet, vissuto durante il regno del faraone Ramesse II (1279-1212). Un pyramidion in pietra (punta di una piccola piramide in mattoni, che era costruita su una tomba a pozzo) ricorda il “sacerdote del culto funerario” Nes-neb-hetep; rientra nel tipo caratteristico della XIX-XX dinastia, in uso presso la necropoli del villaggio di Deir el Medina, abitato degli artisti delle tombe della Valle dei Re. Una piccola scultura raffigura un principe in posizione di orante dietro una stele: si tratta di un modello per apprendisti scultori ed è databile alla XXVI dinastia.

La sala presenta cinque vetrine tematiche, dedicate: alle principali divinità; agli animali sacri (con mummie di coccodrillo, di gatto e di falco) e alle divinità zoo-antropomorfe; agli usciabti (statuine raffiguranti gli aiutanti del defunto in pietra, legno e faïence, dalla XVIII alla XXX dinastia; tre sono del faraone Sethi I); e agli amuleti (ricca esemplificazione con pezzi anche di notevole fattura, la cui esposizione continua in una cassettiera vetrata fruibile dal pubblico).
Una piccola nuova sala presenta, in uno spazio isolato e raccolto, la mummia di Pa-sen-en-Hor con il suo sarcofago e il cartonnage che un’idonea illuminazione permette di leggere in tutti i dettagli.
La nuova saletta adiacente è dedicata al periodo greco-romano dell’Egitto: una serie di figure in terracotta riproducono le divinità egizie con forme e stile dell’arte ellenistica e romana. Un pettorale e una maschera che coprivano le mummie fanno parte del deposito concesso dal Museo di Storia Naturale, come il sarcofago ligneo con mummia.

Conclude il panorama delle diverse culture succedutesi lungo il Nilo, l’esposizione di materiali copti e islamici. Lucerne con il simbolo della croce e del monogramma cristologico, sono accanto ad ampolline di San Mena e una figurina di orante; un grande frammento di scultura in alto rilievo raffigura due Nereidi danzanti e un Erote a cavallo di un delfino, e proviene probabilmente dal Cairo (inizio V secolo d.C.); una stola tessuta e ricamata in lana, decorava una tunica del IV-VI sec. d.C.
Ancora lucerne e frammenti di vasellame in ceramica invetriata del XIII-XIV secolo, ritrovate nel 1919 da un triestino presso il Cairo e spedite al Museo, per accrescerne le collezioni.

Queste collezioni si sono costituite proprio con donazioni e acquisti da parte di triestini, i quali, nell’Ottocento e nei primi anni del Novecento, avevano intrattenuto rapporti con l’Egitto. Così, colpiti dalla bellezza dei manufatti antichi di questo paese, “contagiati” dalla dilagante moda dell’egittomania, ne hanno acquistato alcuni di grande e piccolo valore; in seguito hanno ritenuto importante farli confluire nelle raccolte civiche perché potessero essere messi a disposizione di un più vasto pubblico” (da www.retecivica.trieste.it)
Trieste ospita inoltre una splendida Sfinge in granito rosa, visibile sulla punta del molo che chiude il porticciolo del romantico castello di Miramare.
La scultura risalente al Periodo Tolemaico (datata l II secolo a.C.) faceva parte della collezione egizia raccolta da Massimiliano d’Asburgo (1832-1867) durante i suoi viaggi nel Mediterraneo orientale, grazie alla consulenza scientifica del celebre egittologo Simon Reinisch.

Alla tragica morte di Massimiliano (fucilato a Queretaro in Messico dai rivoltosi di Benito Juarez il 19 giugno 1867), l’intera collezione venne portata a Vienna presso il Kunsthistorisches Museum, dove è ancora oggi visibile.

Tranne la Sfinge che rimase a Trieste.
Sull’enigmatico monumento è sorta (ad uso e consumo dei turisti) la leggenda della maledizione del castello di Miramare

Tornando alla “Mummia di Zagabria”, successivamente gli studiosi si accorsero che le bende della mummia erano coperte da un testo di oltre 1.200 parole. Quindi nel 1892 l’egittologo Brugsch studiò questo “libro di lino”, lo classificò come etrusco poichè la scrittura era quella in uso nel Etruria settentrionale tra il III e il II secolo a.C..


Ma come finì un libro etrusco in Egitto? Si suppone che questo libro sia appartenuto ad un aruspice e che, tramite commercianti sia giunto tra le mani degli egiziani, i quali lo tagliarono a strisce per fasciare la mummia.
E’ in assoluto il testo scritto etrusco più lungo al mondo. Esso è composto da 230 righe e di circa 1350 parole non del tutto traducibili a causa dell’usura del tempo.


Il “Liber linteus” di Zagabria, come gli specialisti chiamano questo testo (viene definito pure “Liber Agramensis”), contiene un calendario rituale delle cerimonie prestabilite in onore delle loro divinità.
Ad esempio dalla III colonna, riga 3, troviamo scritto: “celi huthis zathrumis flerxva Nethunsl sucri” ovvero “Settembre sei venti offerte a Nettuno si dedichino ” ossia ” il 26 settembre si dedichino venti offerte a Nettuno”; ed era suddiviso in dodici riquadri rettangolari ognuno con 34 righe che veniva ripiegato “a fisarmonica” seguendo le linee verticali dei riquadri che funzionavano dunque come le pagine di un libro.

Grazie ai casi della Storia, una testimonianza della scrittura etrusca, attraverso l’Egitto. è giunta sino a noi.

(Testo e foto di Domenico Pelino).

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