Puglia misteriosa. L’enigma del palindromo S.O.D.O.S. del succorpo della cattedrale di Foggia; di Giancarlo Pavat.

 

Immagine di apertura; il misterioso acronimo S.O.D.O.S di Foggia (foto G Pavat)

 

Puglia misteriosa.

L’enigma del palindromo S.O.D.O.S. del succorpo della cattedrale di Foggia.

di Giancarlo Pavat 

 

Qualche settimana fa, un nostro lettore pugliese ci ha scritto chiedendoci lumi su una misteriosa parola scolpita in un bassorilievo che si trova sopra l’ingresso del succorpo della Cattedrale di Foggia.

Alla e-mail era allegata una foto di questi bassorilievo in cui si vede Cristo deposto dalla Croce che, evidentemente in piedi, emerge con il busto da una sorta di sarcofago. 

2. Immagine sopra: la foto inviata da un lettore, che raffigura il bassorilievo con il Cristo deposto che esce dal sepolcro e il presunto acronimo S.O.D.O.S.. Ma siamo certi che sia scritto proprio S.O.D.O.S.?

La cifra iconografica ricorda il “Cristo morto nel sepolcro” (o “Pietà“, tempera su tavola, 48×38 cm) realizzato nel 1460 da Giovanni Bellini (1433-1516) e attualmente custodito presso il Museo Poldi Pezzoli di Milano.

3. Immagine sopra: La “Pietà” di Giovanni Bellini. Tempera su tavola (48×38 cm) del 1460, conservata al Museo Poldi-Pezzoli di Milano (Fonte Wikipedia)
  

Si tratta comunque di un tema piuttosto diffuso che Bellini riprenderà pure in altre opere cone la cosiddetta “Pietà di Brera” (detta anche  “Cristo morto sorretto da Maria e Giovanni“), realizzato tra il 1465 e il 1470 e conservato, appunto, presso la Pinacoteca di Brera a Milano). 

4. Immagine sopra; la cosiddetta “Pietà di Brera” (o pure “Cristo morto sorretto da Maria e Giovanni” ). Trattasi di una tempera su tavola (86×107) realizzata da Giovannni Bellini tra il 1465 e il 1470 e conservata, appunto, presso la Pinacoteca di Brera a Milano. (Fonte Wikipedia).

 

Ma non solo. Vi si cimento’ (giusto per fare ancora un esempio) anche Giovanni Santi (1439-1494) con il suo “Cristo morto in piedi nel sepolcro circondato dai simboli della Passione” (tavola di 25×30 cm, datata tra il 1475 e il 1482 e conservata alla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino).

Nel bassorilievo foggiano, sopra il Cristo è stato inciso il celebre acrostico I.N.R.I., mentre sul lato lungo del sarcofago ecco la misteriosa scritta palindroma; S.O.D.O.S..

Con “acrostico” si indicano quei termini che si formano utilizzando le iniziali di singole parole o le lettere con cui iniziano intere frasi poetiche. Non a caso etimologicamente deriva ἀκρόστιχον, formato dalle parole greche ἄκρον (si legge àkron), ovvero “estremità” e στίχος (cioè  stikos) “verso”. Appunto, “estremità (nel senso di “inizio”) dei versi”.

“Acrostico” è quasi sinonimo di “acronimo”. Derivante sempre dal greco ἄκρον , “estremità” e ὄνομα (si legge ònοma), “nome”. Generalmente gli acronomi sono considerati “sigle” (ad esempio O.N.U., “Organizzazione delle Nazioni Unite” o U.E., “Unione Europea”) ma non sempre è così. In molti casi l’acronimo può essere formato dalle sillabe iniziali delle parole.

5.  Immagine sopra: l’ingresso del Succorpo con iĺ bassorilievo con il Cristo deposto che esce dal sepolcro e l’acronimo S.O.D.O.S..

 

Quindi, mentre per l’I.N.R.I. va benissimo utilizzare il termine “acrostico”, per il misterioso S.O.D.O.S è più corretto usare “acronimo”, visto che, come si noterà nel proseguo dell’articolo, potrebbe anche essere formato da sillabe e non da singole iniziali di parole.

Già che ci siamo, vediamo pure l’etimologia del termine “palindromo”. Deriva dalle parole greche πάλιν?  (si legge pálin) “di nuovo” e δρóμος (drómos),   ovvero “percorso”. Significa quindi “che può essere percorso su se stesso”, ovvero “letto (o leggibile) in entrambi i sensi”. Esistono tantissime parole e frasi palindrome. Come IN GIRUM IMUS NOCTE ET CONSUMIMUR IGNI. Frase latina che, come è evidente, si può leggere da sinistra verso destra e viceversa. Generalmente viene attribuita al grande poeta latino Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.). In realtà, di questa frase, che si ritiene si riferisca alle falene, non vi è traccia nel corpus delle sue opere.

Qualche anno fa, il dottor Giovanni Paltrinieri, gnomonista di Bologna, mi segnalo’ un’altra frase palindroma. Si trova incisa sul pavimento del Battistero di Firenze, risalente all’anno Mille e recita: EN GIRO TORTE SOL CICLOS ET ROTOR IGNE.

Si intuisce facilmente che si riferisce all’alternato moto del Sole nel corso dell’anno con la corrispondenza delle stagioni.

6. Immagine sopra; il SATOR circolare inciso sull’intonaco medievale dei muri del chiostro dell’Abbazia di Valvisciolo, oggi in provincia di Latina (disegno G. Pavat 2010)

7. Immagine sopra; Il Sator “rovesciato” (nel senso che comincia con la parola ROTAS) sulla colonna della “Grande Palestra “di Pompei (da G Pavat “Nel segno di Valcento”, edizioni Belvedere 2010).

Ma il palindromo più famoso di ogni tempo è certamente il cosiddetto “Quadrato del SATOR“.

Ovvero cinque parole latine:

SATOR

AREPO

TENET

OPERA

ROTAS

che nel corso dei secoli hanno fatto scorrere i proverbiali fiumi d’inchiostro da parte di chi si è cimentato nel tentativo di scioglierne l’enigma. E per il quale si rimanda alla vastissima letteratura sull’argomento. In particolare, si consiglia vivamente la lettura di alcuni articoli sulla tematica, pubblicati nel corso degli anni su questo nostro sito. Come “La regina Caterina de Medici e il Sator” di Teodoro Brescia del 14 settembre 2018, o la recensione del 12 febbraio 2021 del libro “Le 12 chiavi del Sator” di Claudio Fabbri (e il volume stesso, ovviamente), o, ancora, i due articoli di Roberto Volterri, “I due volti di un Sator svedese….” del 13 febbraio 2021 e “Gli infiniti misteri del Sator” del 6 marzo 2021. E, infine, “Svelato l’enigma del significato del Quadrato Magico del Sator?” di Ferdinando De Rosa e Floriana Bartolucci del 13 marzo 2021.

8-9. Immagine sopra: la “Pergamena di Nettuno” con, in basso a destra, il SATOR. Nell’estate del 2009 si diffuse la notizia del rinvenimento da parte del curatore dell’Antiquarium di Nettuno, Arnaldo Liboni, di un ulteriore esemplare di SATOR disegnato su una antica pergamena rinvenuta nell’Archivio dello stesso Antiquarium . La pergamena, risalente al XVII secolo, era stata utilizzata come copertina di un fascio di atti notarili settecenteschi. L’ignoto compilatore della pergamena, oltre ad alcune “croci” ha disegnato enigmatici simboli: si riconoscono un “triangolo” con i nomi di Dio, due “circonferenze” inscritte una nell’altra, un “Nodo di Salomone Cruciforme” e, appunto, il “Quadrato del SATOR”. Immagine in basso; particolare del SATOR della “Pergamena di Nettuno” (Archivio ilpuntosulmistero).
 

Ebbi modo di vedere la scritta palindroma S.O.D.O.S. alcuni anni fa, durante una visita alla città di Foggia. Sebbene all’epoca mi interessasse molto di più ciò che è giunto sino a noi del Palazzo di Federico II di Svevia, non mancai di recarmi a vedere anche la Cattedrale dedicata alla Beata Maria Vergine Assunta in Cielo (XII secolo).

10. Immagine sopra; la Cattedrale di Foggia. (Elaborazione grafica G. Pavat)

Ovviamente mi colpi’ questo  acronimo palindromo di cui non avevo mai sentito parlare e che,  francamente,  non ricordavo (e non ricordo) di aver mai visto da qualche altra parte. Né prima, né dopo, quella visita a Foggia.

Era comunque evidente che anch’esso celava una frase, proprio come l’I.N.R.I.. Ma quale frase?

Prima di affrontare, con tutta la cautela del caso, il S.O.D.O S., cerchiamo di vederci più chiaro anche sul celeberrimo I.N.R.I.. Ci si chiederà che cosa ci si ancora da scoprire, visto che tutti sanno che significa IESU (o JESUS, a seconda se è scritto con la I o con la J) NAZARENUS REX IUDEORUM. Si tratta della motivazione della condanna a morte di Cristo da parte dei Romani, incisa sul Titulus crucis, ovvero l’iscrizione posta in cima allo stipes, ovvero il palo verticale della croce. 

11. Immagine sopra; la Basilica di di Santa Croce in Gerusalemme a Roma (Foto G. Pavat 2017).

 

Nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma (una delle tradizionali “Sette chiese” dell’Urbe) è conservata ed esposta ai fedeli, una tavola di legno recante una iscrizione leggibile da destra verso sinistra, trilingue; ebraico, greco e latino.

12. Immagine sopra: Il “Titulus crucis” conservato nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme (Fonte Wikipedia)

Secondo la tradizione sarebbe stata ritrovata e portata a Roma, assieme ad altre reliquie della Passione e Crocefissione (come la “Vera Croce” e i chiodi) nel IV secolo dall’imperatrice Elena, madre di Costantino e poi proclamata Santa. Non a caso la Basilica sorge sui resti del palatium dell’imperatore.

13-14. Immagini sopra e sotto: La Basilica di Santa Croce in Gerusalemme è nota pure per un altro mistero. Sulla volta del vestibolo della cappella di Sant’Elena, posta all’interno della Basilica romana, è raffigurato a mosaico  un pappagallo noto come “Ara scarlatta” o “Ara Macao”. Si tratta del grande e variopinto volatile diffuso nella foresta dell’Amazzonia e in tutta l’America tropicale. La datazione e l’attribuzione dell’intero mosaico è ancora oggetto di dibattito tra gli storici dell’arte. Ma la maggior parte di essi ritiene che l’opera sia realizzata da Melozzo da Forlì nel 1484.  Quindi ben prima, non solo della scoperta ufficiale del Brasile da parte dei Portoghesi, ma addirittura del primo viaggio di Colombo nelle Americhe.
Gli storici dell’arte, in evidente imbarazzo, hanno sentenziato che il pappagallo amazzonico è stato sicuramente aggiunto dopo. Effettivamente nel primo decennio del XVI secolo Baldassarre Peruzzi (1481-1536) ha restaurato il mosaico di Melozzo (morto nel 1494). Ma non vi è alcuna prova che il Peruzzi abbia aggiunto qualche particolare e, soprattutto, che avesse visto dal vero o in effige un simile animale. Non è forse più logico pensare che in realtà tale variopinto e bellissimo volatile era già noto, se non altro nelle gerarchie ecclesiastiche (al Tempo depositarie della Cultura e della Conoscenza e nel caso del mosaico in questione committenti del Melozzo) semplicemente perché qualcuno c’era già stato, da molto tempo e svariate volte, nelle immense terre oltreoceano? (Foto G. Pavat 2017)

 

Successivamente della tavola con l’iscrizione si sarebbero perse le tracce finché non venne “casualmente” rinvenuta nel 1492 durante lavori interni alla stessa basilica romana. 

La tavola è stata identificata proprio con il Titulus crucis citato dai Vangeli, anzi, come si specifichera’ tra poche righe, in  quello giovanneo. Sebbene un’analisi del legno, mediante il metodo del “Carbonio 14“, abbia datato la tavola al X secolo d.C., quindi al Medio Evo, i caratteri con cui è scritta sono invece perfettamente compatibili con quelli in uso nel I secolo d.C.. Per inciso va ricordato che il metodo “C 14” non è più ritenuto infallibile. Quindi…

Comunque, l’esistenza di un titulus venerato dai fedeli è attestata sin dal IV secolo d.C. come riportato nella “Peregrinatio Aetheriae”. Un testo presente in una lettera di una donna di nome, appunto, Egèria o Aetheria,  originaria della Galizia romana nell’attuale Spagna. Egèria, nella sua Peregrinatio ad Loca Sancta, ovvero un pellegrinaggio a Gerusalemme, scrive:

Et affertur loculus argenteus deauratus, in quo est lignum sanctum crucis, aperitur et profertur, ponitur in mensa tam lignum crucis quam titulus”.
(Itinerarium Egeriae 37,1)

Traducibile in:

“(..) e viene portata una cassetta d’oro e argento, in cui (è conservato) il Santo Legno della Croce, viene aperta e tirato fuori, viene posto sulla mensa (sulla tavola d’altare?) sia il Legno della Croce che il Titolo”.

Ma aldilà della plausibilita’ storica della reliquia della basilica romana (il Titulus visto da Egèria è lo stesso esposto  nella Basilica?), quello che pochi sanno (e a cui si è fatto cenno poc’anzi) è che l’I.N.R.I. (inteso come IESUS NAZARENUS REX IUDEORUM) compare soltanto nell’ultimo Vangelo canonico, quello giovanneo.

Negli altri tre, i cosiddetti “sinottici”, la motivazione della condanna di Cristo è ovviamente presente ma con sostanziali differenze. Addirittura in Marco (15, 26) e in Luca (23, 38) non compare neanche il nome di Gesù ma si parla genericamente di “Re dei Giudei”. In greco ὁ βασιλεὺς τῶν Ἰουδαίων (ho basileùs tôn Iūdaíōn). Inoltre, anche il fatto che fosse scritta in tre lingue (ebraico, greco e latino) lo troviamo soltanto nel “Quarto Vangelo”. Circostanza che gli studiosi ed esegeti hanno considerato come ulteriore conferma della natura essenzialmente simbolica, spirituale, direi esoterica dell’opera giovannea. Non è un caso che viene considerato anche come l’unico Vangelo gnostico ammesso nel Canone. In pratica l’I.N.R.I. trilingue non andrebbe visto come elemento storico ma in senso teologico, simbolico. L’Ebraico è la lingua dell’Antico Testamento, il Greco quella in cui veniva diffuso il messaggio evangelico e il Latino quello dei dominatori, fondatori e signori di quell’Impero che, in una visione provvidenziale della Storia, era sorto per unire tutte le terre dell’Ecumene e, pertanto, facilitare proprio la diffusione del Verbo. In pratica l’ I.N.R.I. sarebbe una sorta di annuncio Urbi et Orbi, all’Umanità intera, del Mistero della Passione, Morte e Resurrezione di Cristo.

D’altronde, sebbene sia testimoniato dalle fonti classiche (ad esempio Svetonio e Cassio Dione) che i Romani fossero soliti appendere al collo del condannato una targa con il suo nome e i motivi della sentenza, risulta difficile da credere (e storicamente plausibile), che i legionari, nel I secolo d.C., a Gerusalemne, si siano presi il disturbo di far tradurre il testo in lingue diverse dal Latino. Epigrafi in più lingue sono esistite (e alcune sono state rinvenute dall’Archeologia) ma riguardavano generalmente editti e proclami dell’Autorità Imperiale.

Infine c’è la questione della parola NAZARENUS. Ovvero originario di Nazareth, che è sempre stata considerata la località di provenienza del Redentore. Peccato che evidenze archeologiche e documentali abbiano accertato che all’epoca di Gesù, questa città non esisteva affatto. Una località con questo nome, Nazareth appunto, si ritrova in Galilea solo a partire dal III secolo d.C.. Secondo diversi studiosi, il termine corretto non sarebbe NAZARENUS ma NAZIREUS.

I Nazirei erano ebrei che avevano fatto voto di consacrazione a Dio. Tra le prescrizioni che seguivano c’era pure quella di portare i capelli lunghi. Come il Sansone dell’Antico Testamento o il Battista o gli stessi Gesù e i suoi discepoli. Questi ultimi erano quindi Nazirei? Non vi sono prove in tal senso ma l’ipotesi non è assolutamente campata in aria. Il discorso è decisamente ampio e complesso e non è possibile riassumerlo in poche righe ed esula dall’argomento principale di questo articolo.

Si è comunque voluta questa lunga digressione sull’I.N.R.I., sia per fornire più nozioni possibili al fine di consentire ad ognuno di farsi una propria idea sull’argomento, sia per far capire come lo studio e la decriptazione di acrostici e acronimi sia suscettibile a svariate ipotesi e possibilità di lettura. Non necessariamente in antitesi ma spesso complementari l’una dell’altra. 

 

Quindi, nel cogliere al volo l’occasione offertaci dal lettore per tentare di sciogliere l’enigma, ci muoveremo con prudenza e usando (non solo metaforicamente) il condizionale e tenendo sempre ben presente che allo stato attuale non si sa nemmeno a quale epoca risalga esattamente il bassorilievo con il S.O.D.O.S.) e che, pertanto, quelle che leggerete sono mere ipotesi interpretative. 

Anzi, invito i lettori, gli amici e i collaboratori del sito a dare il proprio contributo. Avanzando ipotesi e proponendo soluzioni.  Chissà che non si arrivi all’interpretazione corretta o quanto meno a quella con maggiore plausibilita’.

Procediamo quindi per gradi. Secondo diversi studiosi il misterioso acrostico S.O.D.O.S. potrebbe avere a che fare con quella congerie sapienziale esoterica riconducibile allo Stupor Mundi”; Federico II di Svevia (Jesi 26 dicembre 1194 – Castelfiorentino dicembre 1250).

15. Immagine sopra: Federico II di Svevia in una pergamena del XIII secolo conservata nel Museo Diocesano di Salerno (Archivio ilpuntosulmistero)

Certamente il grande Imperatore  Svevo ebbe sentimenti particolari nei confronti di Foggia, che, stando alle fonti, ebbe modo di visitare per la prima volta nel febbraio del 1221

Si racconta, ad esempio, che diede disposizioni affinché il proprio cuore fosse conservato all’interno della cattedrale. Questa sorta di “reliquia” sarebbe scomparsa a causa del disastroso terremoto del 1731.

16. Immagine sopra: Federico II di Svevia. Particolare della tela di Arthur Georg Ranberg (1819-1875), conservata presso il “Maximilianeum” di Monaco di Baviera (Archivio ilpuntosulmistero)

Dalla Leggenda alla Storia. Federico II scelse Foggia come residenza imperiale, trasformandola in una delle città più importanti di tutto il Regno di Sicilia.

Apprezzava la posizione della città, situata in un punto strategico vicino alla costa e immersa in una zona pianeggiante. Perfetta per l’allevamento dei cavalli e la coltivazione di foraggi.

Si fece costruire un sontuoso e imponente palazzo imperiale, celebrato dai contemporanei. Purtroppo dell’originario Palatium è  giunto sino a noi soltanto un  archivolto decorato  con motivi vegetali.

17 – 18. Immagine sopra; l’archinvolto murato su una facciata dell’attuale Palazzo Arpi, sede del Museo Civico.  Immagine sotto;  il particolare della meglio conservata delle due aquile imperiali dell’archinvolto.

Il manufatto è sostenuto da due mensole scolpite con le forme di altrettanti  aquile, simbolo dell’Impero.

Il pregevole archinvolto è oggi incastonato  su una facciata di Palazzo Arpi, sede del Museo Civico.

Nella parte interna dell’archivolto è  posta un’iscrizione che ricorda la costruzione del Palazzo imperiale per mano del protomagister Bartolomeo da Foggia. 

Quanto alla Cattedrale, secondo lo studioso foggiano professor Giuseppe de Troia, uno dei massimi esperti di storia federiciana, la cripta sarebbe stata realizzata per volere dello Svevo a somiglianza del “Cenacolo di Gerusalemme” dopo il ritorno dalla Terrasanta.

Avendo stabilito nel Palazzo di Foggia la sua Sede Regale e Imperiale, al rientro da Gerusalemme Federico necessitava di un altro monumento che celebrasse il suo titolo di Re di Gerusalemme: egregiamente a ciò venne la costruzione della Cappella Palatina intitolata al Santo Sepolcro di Cristo in cui Lui era stato incoronato Re.  E che la chiesa sotterranea di Foggia, oltre che per il nome Ecclesia Subterranea Sancti Corporis Christi, per la sua struttura, doveva essere nelle intenzioni di Federico una riproduzione del Santo Sepolcro di Gerusalemme si deduce dai vari elementi di confronto”. (da “Fogia regalis sedes inclita imperialis” . Intervento del professor Giuseppe de Troia al Convegno su Federico II di Svevia Università di Foggia, Dipartimento di Studi Umanistici. 18 Novembre 2021. Fonte www.stupormundi.it)

 

Effettivamente le somiglianze tra i due luoghi sacri sono davvero notevoli.

Ma non e’ tutto. Sul lato settentrionale della cattedrale, l’arcatura esterna presenta  due semicapitelli decorati con testine dai caratteri regali. In una si è voluto riconoscere proprio l’imperatore Federico II.

19.  Immagine sopra; la presunta testa di Federico II scolpita su un semicapitello esterno della Cattedrale di Foggia (foto G. Pavat 2017).

 

Personalmente, pur essendo un “fan” dello Stupor mundi, non me la sento di attribuirgli il S.O.D.O.S.. Il simbolismo esoterico federiciano era di ben altra natura e cifra. Inoltre, non mi sembra che il Bassorilievo del succorpo possa essere datato al XIII secolo.

Se, relativamente alla datazione e all’attribuzione, si brancola nel buio, cerchiamo almeno di sciogliere l’acronimo.

 

20. Immagine sopra; il bassorilievo con l’acronimo S.O.D.O.S.

Qualcuno vi ha letto la frase latina;

SOl Deus Optimus Sacrum

ovvero

“Sole (nel senso di Sol Invictus) Dio Ottimo Sacro”

oppure, cambiando solo l’ultima parola;

SOl Deus Optimus Saluti.

Entrambe le soluzioni non mi convincono. 

Altri ricercatori hanno proposto:

SOli Dei Sacrum. 

ovvero “Sacro al solo Dio”.

Ipotesi suggestiva ma in questo caso rimane fuori una O.

Ma, a proposito di O, siamo davvero certi che in realtà quelle che sembrano lettere O, lo siano veramente?.

Osserviamole bene. Non si nota nulla di strano? Per essere O sono proprio particolari! Nella parte superiore le due O non sono perfettamente “chiuse”.

Infatti potrebbero essere la raffigurazione dell’Uroboro. Ovvero il  serpente che si morde la coda e che simboleggia esotericamente la continuità e la ciclita’ della Vita, ovvero l’Infinito. Ma pure di Rinascita e Resurrezione.

21. Immagine sopra: un Uroboro o Ouroboros (Archivio ilpuntosulmistero).

22. Immagine sopra; il vecchio ingresso del Cimitero Cattolico di Trieste. Incredibilmente, sul frontone, invece che una Croce o altro simbolo cristiano, campeggia un’Uroboro (foto G. Pavat 2024)
23 – 24. immagini in basso; l’ingresso del vecchio Cimitero Evangelico (in funzione dal 1752 al 1834) in via del Monte a Trieste. Forse anche qui c’era un’Uroboro, poi scalpellato via. La frase latina “Christus est Vita” è facilmente traducibile in “Cristo è vita” (foto G. Pavat 2024)

 

Quindi tolte le due O, che tali non sono, ci restano le lettere  S.D.S.

Anche qui le ipotesi possono essere molteplici. Ma visto che sono scolpite su quello che sembra un sarcofago, quindi la tomba di Cristo, potremmo leggervi le parole latine;

Sanctissimi Domini Sepolcrum.

Può essere questa la soluzione? Forse. Ma è un “forse” grande come una casa. La chiave di tutto potrebbero essere il committente, l’artefice e la datazione. Quindi, finché non si riuscirà a completare le caselle relative a questi tre elementi, difficilmente si riuscirà a scrivere una parola definitiva sul S.O.D.O.S. o S.D.S.. Anche perché sembra proprio che si tratti di un unicum pugliese, anzi foggiano.

Quindi la “cerca” è ancora aperta. Forza, l’anno e appena cominciato!

(Giancarlo Pavat)

 

 

 

 

 

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