FIAT LUX! Immortalare la luce, le ombre, il buio….e la straordinaria “Camera ottica” di Fontanellato (PR); di Roberto Volterri.

Immagine di apertura; la prima fotografia della storia! E’ stata ottenuta nell’estate del 1826 a Le Grass da Nièpce esponendo una lastra, ricoperta di bitume di Giudea, davanti alla finestra della casa dell’inventore. Appaiono i tetti delle case circostanti.

 

Fiat lux!
Immortalare la luce, le ombre, il buio…e la straordinaria “Camera ottica” di Fontanellato (PR)

di Roberto Volterri

 

Chiudete ermeticamente le finestre della stanza in cui effettuate l’esperimento, tappando bene le più piccole fessure, affinché la luce del giorno non possa entrarvi dall’esterno…”

Così esordisce – ovviamente in un italiano un po’ più aulico e appena meno comprensibile – il grande studioso di scienze naturali Giovanni Battista della Porta in un suo libro pubblicato a Napoli nel 1589 ed intitolato “Magia Naturalis, sive miraculi rerium naturalium”.

2-3. Immagine sopra; Il libro di Giovanbattista Della Porta in un’edizione del 1607. In basso l’edizione del 1560.

Nell’opera, a dire il vero infarcita anche di una consistente serie di ‘ricette’ ai limiti dell’impraticabile oltre che dell’incredibile, più esattamente nel Liber XIX dedicato alle esperienze di ottica, egli descrive la trisavola delle macchine fotografiche, la ‘camera oscura’.
“… Quindi con un succhiello praticate in un’imposta un solo forellino in forma di cono con il vertice verso il sole e la base aperta verso l’interno della stanza, la quale dovrà avere le pareti imbiancate o tappezzate di lenzuoli candidi…”.

Qui, il nostro scienziato, a volte in veste di ‘stregone’, commette un piccolo errore, quello di suggerire di tappezzare tutto l’interno della stanza di bianco, quando sarebbe bastato rendere candida solo la parte posta di fronte al foro. Anzi, come appare ben chiaro, aprendo una qualsiasi macchina fotografica ‘analogica’ – insomma quelle con il caro, vecchio rullino – l’interno è rigorosamente nero, proprio per evitare indesiderabili riflessi.

“… In tal modo, – egli prosegue – proiettate sullo schermo bianco, vi appariranno tutte le persone che passano per la via e le potrete veder procedere con la testa in basso…”.

Fra poco vedremo – insieme ad altri brevissimi cenni sull’origine della ‘camera oscura’ – come un’idea del genere, con qualche perfezionamento tecnico, sia servita ai nobili d’altri tempi, abitanti in un castello di Fontanellato (Parma) per trasformare una sala dell’edificio in una sorta di ‘telecamera’ ante litteram in grado di proiettare all’interno tutto l’andirivieni dei poveri ed ignari concittadini.

Ma ora continuiamo con il buon della Porta

“… Inoltre più le cose stanno lontane dal foro, più le immagini si mostreranno grandi. Se poi si fa colpire il raggio che giunge dal forellino su una lente capace di concentrarlo in un sol fascio prima di proiettarlo sullo schermo, regolando la distanza della lente con l’allontanare o con l’avvicinare più o meno il braccio, tutte le immagini appariranno circonfuse d’azzurro – qualche inevitabile aberrazione cromatica è d’obbligo! – ma sempre rovesciate, perché vivine al centro della lente. Allontanandole invece dal centro, si ingrandiranno e appariranno diritte.”

4. Immagine sopra; Disegno di una primitiva ‘camera oscura’ risalente al 1544, del tutto simile a quella descritta da Giovanni Battista della Porta.

In definitiva Giovan Battista della Porta descrive un vera e propria fotocamera, anche se un bel po’ rudimentale, munita addirittura di obiettivo! E tutto ciò quasi tre secoli prima dei geniali Louis Jacques Mandé Daguerre (1787 – 1851) e Joseph Nicèphore Nièpce e dei loro “Eureka!” davanti alle prime, suggestive immagini del mondo che li circonda, fissate su lastre metalliche – ‘sensibilizzate’ con Bitume di Giudea o altri ‘intrugli’ – che però costituiscono le basi della fotografia moderna.

 

Brevi, anzi brevissimi, cenni sulla storia della fotografia

Ufficialmente chi grida – magari lo pensa soltanto… – il primo “Eureka!” nella storia della fotografia fu Louis Jacques Mandé Daguerre (!787 – 1851). É il lontano 1831…

Ma le cose non stanno proprio così perché quasi un secolo prima, il tedesco J.H. Schultze grida il suo personale “Eureka!” quando scopre che alcuni sali a base d’argento sono sensibili alla luce e variano la loro colorazione proprio in funzione dell’intensità di radiazioni luminose assorbite.

Forte di queste informazioni, nel 1802 l’inglese T. Wedgwood tenta con successo di stampare delle immagini su pelli animali trattate in precedenza con nitrato d’argento.

Il lato negativo del sistema usato dall’inglese è che le immagini non sono stabili e tendono a scomparire dopo un po’. Sedici anni più tardi è la volta del ben più noto Joseph Nicèphore Nièpce (1765 –1833) che realizza le primissime eliografie utilizzando come base una lastra di peltro sensibilizzata con il bitume di Giudea.

Il bitume di Giudea, esposto alla luce solare diventa insolubile ai comuni solventi, mentre l’olio di lavanda e la trementina riescono a scioglierlo nelle zone non colpite dalla radiazione luminosa. Nei suoi primi esperimenti Nièpce scioglie del bitume di Giudea, ridotto in polvere, in essenza di lavanda. La soluzione viene poi deposta, con un pennello, su una lamina di rame ricoperta d’argento e quindi fatta asciugare. Lo strato di vernice fotosensibile è quindi esposto per qualche ora sul fondo di una camera oscura; successivamente la lamina viene immersa in un bagno di lavanda per dissolvere i frammenti che non hanno ricevuto la luce e così egli ottiene l’immagine in negativo.
Per il positivo occorre un contenitore con cristalli di iodio che formano depositi di ioduro d’argento. Eliminando la vernice con l’alcool appare l’immagine fotografica vera e propria che è definita eliografia, la madre della moderna fotografia. L’unico imprevisto è che il risultato del suo lavoro non è ‘fissato’ e quindi si annerisce progressivamente al contatto con la luce.
I suoi primi esperimenti consistono proprio in stampe a contatto di litografie su carta – o anche altre incisioni – rese trasparenti mediante immersione nell’olio e quindi stampate sulle lastre di peltro ricoperte da un sottile strato di bitume di Giudea.

Poiché Nièpce è stato collaboratore di Daguerre per un certo tempo – alla fine degli anni Trenta del XIX secolo – è abbastanza probabile che Daguerre si sia ‘ispirato’ a quei primi esperimenti.

La notizia ufficiale dell’invenzione del dagherrotipo – ovvero la ‘fotografia’ inventata da Daguerre – è data all’Accademia delle Scienze di Parigi il 7 Gennaio del 1839 ad opera di Françoise Dominique Arago, grande astronomo e segretario dell’Accademia stessa, e si può dire che essa coincide con la presentazione ufficiale – fatta il 25 Gennaio dello stesso anno – del disegno fotogenico, consistente in sagome di carta poste a contatto di carte fotosensibili con il trattamento a base di nitrato d’argento.

Come funziona la tecnica inventata da Daguerre?

La lastra metallica, solitamente di rame, viene argentata, lucidata perfettamente e trattata con acido nitrico diluito. Poi viene sensibilizzata creando su una sola superficie un sottile strato sensibile all’azione della luce ponendo la lastra all’interno di una camera di fumigazione. In questo apparecchio, da appositi dischi ricoperti di ioduro di potassio e riscaldati, provengono dei vapori che, a contatto con la superficie dell’argento, creano lo strato di ioduro d’argento necessario a sensibilizzare la lastra.
Sappiamo che tale sale, come anche il bromuro e il cloruro d’argento, esposto alla luce in una camera oscura – insomma in un rudimentale apparecchio fotografico – subisce una modificazione non visibile e forma sulla sua superficie quella che ancora oggi gli esperti di fotografia definiscono ‘immagine latente’.

Ora però era necessario rivelarla mediante dei composti chimici in grado di agire solo sui cristalli di alogenuro d’argento colpiti dalla luce, lasciando inalterati tutti gli altri non esposti. Il dagherrotipo viene così sviluppato mediante vapori di mercurio ottenuti riscaldando a 60 ° centigradi tale elemento con una lampada I vapori agiscono sull’argento fotolitico prodotto dalla radiazione luminosa formando un amalgama bianco. Le aree della lastra metallica in cui c’è l’amalgama coincidono quindi con le zone più luminose, più chiare dell’immagine ritratta, quelle in cui l’amalgama è assente corrispondono invece con quelle più scure.

Poi l’immagine rivelata viene fissata con una soluzione di iposolfito di sodio, con un metodo suggerito da Herschel, per rendere solubili i cristalli di ioduro d’argento non esposti, in modo che alle zone meno luminose della scena ritratta corrisponda sulla lastra la superficie argentata.
Daguerre ottiene i primi risultati positivi nel fissaggio usando una soluzione calda di cloruro di sodio, in cui immerge la lastra La superficie argentata riflette la luce incidente più dell’amalgama, ma tale stato di cose si inverte se i dagherrotipi vengono osservati con un’inclinazione di 45°.

L’immagine appare così in positivo ma speculare rispetto all’originale.
La superficie del dagherrotipo è particolarmente delicata, sensibilissima alla polvere accidentalmente strusciata su di essa. Pertanto i dagherrotipi vengono conservati in una cornice ricoperta da vetro o in un apposito astuccio.
L’appetito vien mangiando e così i dagherrotipi in bianco e nero vengono successivamente colorati a partire dal 1841, ad opera di

Nel 1842, per evitare i graffi accidentali, Benjamin Stevens e Lemuel Morse trattano la superficie del dagherrotipo con un sottilissimo strato di gomma trasparente.

Moltissime sono le altre tecniche per fissare su un supporto rigido un’immagine ripresa con gli apparecchi che costituiscono i primordi della fotografia.
Potrei, ad esempio, far cenno al cosiddetto Ambrotipo,, introdotto nel 1851, consistente in una lastra trattata al collodio che, dopo essere stata esposta alla luce, dà origine ad un negativo che poi viene sbiancato con acido nitrico o bicloruro di mercurio.
Oppure potrei descrivere il metodo della Carta cerata, ideato da Gustave Le Gray nello stesso anno, metodo consistente in una lastra di metallo riscaldata con una lampada a spirito; sulla lastra si passa poi la cera e su di essa si preme un foglio di carta. Il foglio così trattato si immerge in una soluzione di acqua di riso, lattosio, ioduro di potassio, cianuro di potassio e fluoruro di potassio. Ma si usa anche miele bianco e albume.
Una volta asciugato, il foglio viene sensibilizzato con una soluzione di nitrato d’argento e acido acetico e poi posto tra due lastre di vetro affinché rimanga umido. Esposto all’immagine da ritrarre, viene sviluppato in una soluzione di acido gallico, alcool e nitrato di argento. Quasi un metodo… ‘alchimistico’!
Poi si potrebbe passare alla Calcotipia, al Collodio secco o agli innumerevoli metodi ideati dall’uomo per poter gridare – quasi sempre tra se e se – il fatidico “Eureka! ”.

Ma non è questa la sede più adatta. Consiglierei perciò di consultare qualcuno dei testi riportati in Bibliografia e, soprattutto, di… passare all’azione!

5-6. Immagine sopra; Bella e suggestiva stampa‘, all’albumina, d’altri tempi! Immagine in basso; Un’altra antica stampa all’albumina.

7. Immagine sopra; Bagni d’altri tempi immortalati in questa antica fotografia dei primissimi anni del Novecento
 

8. Immagine sopra; La prima fotografia in cui appaiono degli esseri umani: un lustrascarpe e il suo cliente, all’inizio del viale alberato, visibili in basso a sinistra.

9. Immagine  sopra; Gigantesca macchina fotografica realizzata nel 1900. Da ‘Guinness dei primati’! Immaginiamo la grandezza delle vasche per lo sviluppo e il fissaggio!

 

Il “Grande Fratello” di Fontanellato.
Uno strano uso della “camera oscura”…

Suvvia, non esageriamo! Non si tratta proprio di un fantascientifico (ma non troppo…) ‘occhio onnipresente’ di orwelliana memoria ma si avvicina abbastanza al certamente ben più noto programma televisivo che regala cifre iperboliche a illustri sconosciuti che amano farsi osservare mentre trascorrono tre mesi della loro vita in una sorta di ‘gabbia dorata’ posta sotto gli occhi di milioni di telespettatori affetti da inguaribile ‘voyeurismo a tutto campo’.

Vorrei riproporre ai lettori quanto ebbi a scrivere tempo fa, su una Rivista che si occupa di argomenti ‘di frontiera’, riguardo a una curiosa invenzione – forse unica nel suo genere, almeno in Italia – che collocherebbe molto indietro nel tempo l’idea di utilizzare una ‘camera oscura’ come una sorta di… televisione ante litteram in cui pochissimi ‘privilegiati’ potevano osservare, a riparo da occhi indiscreti, la vita, le vicende, gli incontri più o meno furtivi di altri concittadini durante le ore del giorno.

Prima, però, partiamo da molto lontano negli anni, da una località collocata quasi al centro della penisola e quindi ben raggiungibile per una possibile ulteriore ricerca de visu: Fontanellato, in provincia di Parma.

10-11-12. Immagini sopra e sotto; la Rocca Sanvitale  o Castello di Fontanellato  (Parma). Si tratta di un maniero medievale  con un  fossato colmo d’acqua, che sorge in piazza Matteotti 1. Oltre alla “camera ottica”, che conosceremo tra poco,  al suo interno sono visibili numerosi capolavori; ad esempio la cosiddetta “Saletta di Diana e Atteone” con gli affreschi del Parmigianino (Fonte Wikipedia).

 

Siamo nella Bassa Parmense, a pochissimi chilometri dalla via Emilia. Qui, nel X secolo, una famiglia di origine longobarda edifica una prima torre difensiva, poi ampliata in un vero e proprio castrum ad opera della famiglia Pallavicino di Soragna che domina il territorio dal 1124 dopo una permuta di terreni effettuata con Folco e Ugo d’Este.

La torre, oggi parte di un magnifico castello, appare agli occhi del visitatore circondata da acque risorgive che alimentano il fossato difensivo.

D’altra parte il nome del paese trae proprio origine dal latino fontana lata, ovvero “grande fontana”, poiché il territorio posto tra i fiumi Taro e Stirane è molto ricco di falde acquifere.

Nel 1145 i Pallavicino cedono il castello al comune di Piacenza e in seguito esso passa alla famiglia Terzi e, intorno al 1386, ai Sanvitale che favoriscono l’accrescersi del borgo e la sua trasformazione in un centro urbano vero e proprio, da cui nasce l’attuale paese di Fontanellato.

Entriamo nel paese…

Percorriamo le strette strade di impianto medievale, lungo le quali si aprono alcune botteghe ben al riparo di portici sostenuti da antiche architravi in legno e rustici pilastri, muti testimoni di un tempo che fu.

Quasi all’improvviso appare la Rocca, recintata da un grande fossato che in tempi andati veniva denominato peschiera poiché veniva utilizzato per l’allevamento di alcune specie ittiche d’acqua dolce.
Altri angoli del castello sono invece caratterizzati da torrette tronco-coniche aggettanti su beccatelli. In passato due ponti levatoi ponevano al sicuro – si fa per dire! – i castellani e tutta la corte dai non infrequenti assalti di truppe nemiche.

I misteri della Torre di Nord-ovest

Ma la parte del castello che più ci interessa è la torre di nord-ovest ove, occultata agli occhi dell’ignaro passante, si cela quella che a ragione può essere considerata una delle prime ‘camere oscure’, invenzione in realtà molto antica e da cui, negli anni successivi, prendono le mosse le ricerche, gli studi per immortalare su un supporto fisico, di solito cartaceo, le immagini del mondo che ci circonda.

Ma prima di passare alla descrizione vera e propria di quella che a Fontanellato viene definita ‘camera ottica’ vediamo rapidamente cosa è balzato nella mente di inventori e geniali fisici dei secoli passati per ’vedere’ e proiettare su un apposito sfondo – e in seguito ‘immortalare’ – le immagini degli oggetti e delle perso

L’occhio del ‘Grande Fratello’ parmense…

Vincendo qualche giustificabile ritrosia di una simpatica guida locale, sono riuscito ad entrare in una stanza di una piccola torre del castello che abbiamo prima descritto – stanza un tempo adibita a prigione – ove, nei secoli passati, è stata realizzata una curiosissima ‘camera oscura’ che, attraverso un geniale sistema di lenti e prismi, consente ancor oggi di proiettare e vedere, riflesso su un apposito schermo concavo, tutto ciò che avviene davanti ad un’innocua feritoia praticata sul corpo della torre stessa.

13. Immagine sopra; La torre del castello con l’apertura ove è installato, quasi invisibile dall’esterno, l’obiettivo dell’apparato ottico che serviva ai nobili ottocenteschi del posto come succedaneo… della televisione. Con riprese dal vivo!

14. Immagine sopra; La parte interna del complesso sistema ottico inserito nelle mura della torre del castello di Fontanellato (Parma). Le immagini provenienti dall’esterno, attraverso delle lenti e un prisma, vengono proiettate su un apposito schermo consentendo di vedere, inosservati, tutto ciò che avviene all’esterno.

In questo modo, in una strana, simpatica mescolanza di interesse scientifico, di curiosità per le innovazioni tecnologiche (la fotografia cominciava a fare i primi incerti passi) e di gusto per il ‘pettegolezzo’ quotidiano frammisto ad una dose non eccessiva di ‘voyeurismo’, i nobili che abitavano il castello potevano spiare, senza essere assolutamente visti, l’antistante piazza del paese con il sagrato della chiesa di Santa Croce e gran parte di ciò che i cittadini erano soliti fare ogni giorno nei pressi del castello.

 

15. Sul pavimento, sorretto dal tavolino, c’è lo schermo concavo su cui vengono proiettate le immagini della piazza, e delle persone che vi transitano. Nell’Ottocento, nella piccola stanza della torre si radunavano i nobili del posto per osservare, al buio, ciò che avveniva nel paese. Una sorta di ‘Grande Fratello’ ante litteram.

16. Immagine sopra; Ecco ciò che il visitatore potrebbe vedere, anche ai nostri giorni, sullo schermo. Purtroppo non è ad Alta Definizione…

Così, la tetra stanza che non molto tempo prima aveva visto soffrire alcuni malcapitati affidati alle ‘cure’ della Giustizia, ora vedeva lo schermo posto sul pavimento affollarsi di personaggi allegri, indaffarati a curare i loro interessi quotidiani, ad incontrarsi, a litigare, ad amoreggiare più o meno ‘discretamente’. Insomma a ‘vivere’.

Più o meno come accade – in una rapporto numericamente invertito – ai milioni di incuriositi telespettatori de ‘Il Grande Fratello’ televisivo mentre ‘indagano’, sbirciano, osservano non visti, le liti, gli incontri, gli ‘amori’ più o meno spontanei di una decina di Not Important Person rinchiusi nella ‘gabbia dorata’ che la grande emittente televisiva di turno mette a loro disposizione per trasformare, in alcuni casi, il Not in un ben più gratificante e remunerativo… Very!

(Roberto  Volterri)

se non altrimenti specificato, le immagini sono state fornite dall’autore.

 

17. Immagine sopra; la copertina dell’ultimo libro di Roberto e Susanna Volterri (Amazon Maggio 2023)
Misconosciuti scienziati italiani, inventori di cose impossibili, “stregoni di scienze inesistenti”, ai confini della realtà, in bilico tra follia e genialità non compresa.

 

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