I misteri dell’abbazia del Goleto (AV) – 7^ ed ultima parte

Si conclude con la settima puntata il lungo articolo, che abbiamo avuto modo di pubblicare per primi in esclusiva, dedicato all’Abbazia del Goleto in provincia di Avellino scritto da Marco Di Donato. Nel ringraziare l’autore per la fiducia accordataci riteniamo giusto esternare alcune impressioni. Anche alla luce dei commenti positivi che ci stanno arrivando.
Questo studio di Marco Di Donato mancava davvero perchè della vetusta abbazia campana che, come abbiamo avuto modo di apprendere, è davvero uno scrigno di tesori artistici e di simbologie, non si sapeva praticamente nulla. Il lavoro del ricercatore irpino ma residente a Frosinone è giunto a colmare un colpevole vuoto nel panorama della storia medievale delle regioni italiane. E ciò va a merito di Marco Di Donato.
Ma, ci si permetta ancora una considerazione. Questo lavoro, ripetiamo encomiabile, indica, se mai ce ne fosse stato bisogno, quanti luoghi, monumenti, siti , certamente esistono ancora in Italia abbandonati nell’oblio e nell’indifferenza di chi avrebbe l’obbligo non solo morale ma istituzionale di tutelarli e promuoverli.
Per l’ennesima volta non sono state le Istituzioni, gli Accademici, i “soliti Soloni”, ad espletare questo compito ma il “semplice” appassionato, l’innamorato del proprio territorio, il Cittadino (con l’iniziale maiuscola e nel senso più profondo del termine) che ha voluto impiegare il proprio tempo, le proprie conoscenze culturali, per squarciare il muro dell’indifferenza che, nel nostro Paese, è spesso prodrome della totale e definitiva scomparsa.
Anche e soprattutto per questo, dobbiamo dire grazie all’autore e a tutti coloro che si sono impegnati per la riuscita di questa iniziativa culturale.

L’ABBAZIA DEI MISTERI: IL GOLETO.
7^ ED ULTIMA PARTE.
di Marco Di Donato.

a. La conchiglia di San Giacomo

In epoca medievale, il cammino del pellegrino veniva svolto principalmente nelle città di Roma, Santiago de Compostela e Gerusalemme.

Una volta giunto all’agognata meta, il pellegrino, a testimonianza del viaggio compiuto, soleva adornare il proprio mantello con alcuni segni distintivi della sua presenza in quel luogo ed in particolare:

• una “conchiglia” per Santiago de Compostela;
• una “palma di Gerico” per Gerusalemme
• una “quadrangula” piccola immagine in piombo con i volti di San Pietro e Paolo o le “chiavi incrociate” per Roma.

Le vie del pellegrinaggio erano tutte affidate alla sicura custodia di ordini monastico ospitalieri, tra cui i celebri Cavalieri Templari.

La “conchiglia”, anche simbolo dell’ordine di “San Giacomo della Spada”, rappresentava il cammino del pellegrino nella città di Santiago de Compostela.

Il pellegrinaggio in questo luogo nacque a seguito della scoperta, “inventio” in latino, del sepolcro dove era stato deposto il corpo dell’apostolo Giacomo.

Subito dopo tale scoperta, i fedeli di tutta Europa iniziarono a recarsi in Spagna per raggiungere il Sepolcro.

Di li a poco, Santiago de Compostela divenne meta del pellegrinaggio per antonomasia oltre che Santo nazionale iberico.

Durante tutto il Medio Evo, San Giacomo, o Santiago, venne visto diverse volte, a cominciare dalla battaglia di Clavijo del 23 maggio del 844 d.C., cavalcare armato di tutto appunto al fianco delle armate iberiche cristiane impegnate contro gli Islamici. Tanto che sarà per questo chiamato anche “Santiago Matamoros”, appunto “Uccisore di Mori”.

Varie sono le motivazioni secondo le quali fu usato questo simbolo, e vanno dalla mera presenza di questo tipo di conchiglia “pecten” (o “cappasanta”) sulle spiagge galiziane, a quella più mistica che collega questo simbolo ad i raggi del sole, donando quindi a questo simbolo il significato di “sole interiore”: quello stesso sole al quale tendevano i pellegrini recandosi in questi luoghi.

Ma il “pecten”, detta pure “conchiglia di venere” è uno dei simboli del “precursore “di Cristo, ovvero San Giovanni Battista. Il quale secondo la tradizione, avrebbe battezzato Gesù nelle acque del fiume Giordano proprio con un conchiglia simile. Non per nulla, in moltissime chiese di tutto il Mondo le acquesantiere hanno sovente la forma del “pecten”.

b. Palma di Gerico o Fiore di Loto.

Al riguardo di questo simbolo vi è da dire che, almeno per quanto di mia conoscenza, non vi è certezza circa la tipologia di fiore/pianta alla quale possa far riferimento.

A nostro parere potrebbe trattarsi di una “palma di Gerico” che come detto raffigura il simbolo del pellegrinaggio a Gerusalemme.

Questa ipotesi potrebbe essere avvalorata dalla rilevata presenza della “Conchiglia di San Giacomo”.

Certo, potrebbe esser detto che manca il terzo elemento, ossia la “quadrangula” (o le “chiavi di San Pietro”) ma questa potrebbe anche essere andata distrutta nel tempo e difatti sono molti i simboli cancellati dal tempo.

Personalmente riteniamo che questo simbolo possa anche essere accostato a quello del “fiore di loto”, che rappresenta la bellezza, la purezza, la perfezione, nonché simbolo del sole del cielo e della terra, della creazione, del passato, del presente e del futuro e dunque della vita stessa.

Utilizzato in oriente ed in particolare nei templi buddisti, il fiore di loto con forma allargata viene raffigurato come seggio di Budda.

Ma il “Fiore di Loto” venne utilizzato principalmente in Egitto laddove rappresentava simbolo di rigenerazione e creazione e veniva usato sia in ambito divino come ad esempio nella raffigurazione del dio Sole fanciullo che in ambito funerario.

Questo simbolo, a detta del dottor Andrea Bignasco nel libro “I Kernoi Circolari in Oriente e in Occidente”, venne usato anche fuori dall’Egitto e precisamente in Fenicia e Palestina laddove ci sono testimonianze dell’utilizzo di questo simbolo su sigilli e raffigurazioni di epoche antecedenti a quella medievale.

In questi luoghi la valenza simbolica e rigenerativa del “fiore di loto” doveva esser nota già nell’VIII e IX secolo, con la raffigurazione di divinità femminili nude ed associate ad animali che portano in mano un fiore di loto, o con la raffigurazione, su di un sigillo israelita dell’VIII sec, di un dio rappresentato su di un fiore di loto aperto e fiancheggiato da due boccioli.

Il valore rigenerativo di questo simbolo è stato anche oggetto dell’architettura templare e, secondo un passo della Bibbia, il grande bacino culturale bronzeo nel Tempio di Salomone aveva la forma del calice di un fiore di loto.

Infine è bene evidenziare che il tipo di fiore/pianta indicata nel simbolo rinvenuto (“palma di Gerico” o “fiore di loto”) rappresenta una nostra mera ipotesi. Per quanto di mia conoscenza, questo simbolo non risulta essere stato rinvenuto in altri luoghi.

c. Croce a fiore

Quello della “Croce a fiore” è un simbolo di particolare interesse mistico.

Anche in questo caso ci troviamo davanti ad un simbolo di difficile rinvenimento.

Tra i luoghi di particolare interesse mistico, il simbolo della croce-fiore è possibile vederlo nella Basilica di Collemaggio a L’Aquila, laddove su di un pavimento a scacchi bianco e rosso (in precedenza nero) uguale a quello che adorna la Cappella di San Luca al Goleto, vi sono questi simboli disegnati sul pavimento.

Secondo quanto ci riferisce la dottoressa Maria Grazia Lopardi attraverso i suoi studi sulla Basilica di Collemaggio, “”nella quinta fase del disegno del pavimento le losanghe lasciano il posto a delle croci rosse… … … ciò è reso possibile dalla presenza di una pietra diversa, posta al centro del tratto con le croci, in cui appare una croce-fiore, dato che invece di presentare spigoli, ha un andamento circolare, proprio come un fiore a quattro petali: è la pietra filosofale degli alchimisti che consente alla materia di trasformarsi da piombo in oro, da impura a pura incorruttibile….””

Inoltre, secondo il ricercatore triestino Giancarlo Pavat, la croce presente al Goleto potrebbe essere riconducibile a quella che i francesi chiamano “croix alabardàta” anche se non assomiglia minimamente al simbolo araldico dell’Alabarda.

Certo è che ci troviamo davanti a simbologie molto particolari e di rara realizzazione e sembra proprio che la Cappella di San Luca al Goleto, così come la Basilica di Collemaggio sia ricca di simbologie misteriose e di particolare fascino.

d. La Rosa

Quello della “rosa” rappresenta uno dei simboli iniziatici più remoti ed universali.

Da sempre abbinato all’amore, secondo la tradizione arabo-orientale indica il percorso metafisico che mira alla trasformazione profonda della coscienza.
Nella religione Cristiana, oltre a simboleggiare la “Devozione Mistica” ed essere associato alla carità di Maria madre di Gesù, la rosa era il fiore che veniva scambiato durante il periodo della Pentecoste, in precedenza chiamata anche “Pasqua delle Rose”, quale simbolo della discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli.

Per gli antichi egizi, la Rosa era il simbolo della “Conoscenza Segreta” e veniva consacrata ad Iside, antica divinità femminile che rappresentava il Cielo.

Durante il periodo delle Crociate, questo simbolo venne diffuso in Europa dai Cavalieri Templari che lo videro e lo esportarono proprio dopo essere entrati in contatto con l’esoterismo arabo.

Al simbolo delle “rosa” i Templari vi hanno sempre affiancato la figura della Madonna ma anche de la Maddalena, e del sangue di Cristo.

Questo in considerazione del fatto che i Templari nutrivano una particolare devozione sia al Maria madre di Gesù che per la Maddalena, ma anche perché collegato al colore rosso e quindi al sangue di Cristo: quello stesso sangue raccolto nel Sacro Graal.

La Rosa inoltre trova un suo corrispettivo nell’orientale “Fiore di Loto dai mille petali”.

Sulla simbologia del “Fiore di Loto” e del suo significato abbiamo già avuto modo di parlarne in precedenza, quel che è certo è che la “Rosa” divenne per i Cavalieri Templari uno dei simboli a loro più sacri il cui uso portò a farla divenire una sorta di segno di riconoscimento unitamente a quello della “Croce Patente”.

e. La “Croce Patente”

Quello della “Croce Patente” è il simbolo Templare per eccellenza.

A tal riguardo, come sottolineato di frequente dal ricercatore Giancarlo Pavat, c’è da dire che in araldica la “Croce Templare” non esiste, ed infatti quando normalmente viene utilizzato questo termine, in realtà si fa sempre riferimento alla “Croce Patente”.

Pavat nel suo libro “Nel segno di Valcento”, Edizioni Belvedere 2010, la Croce sull’abito dei Cavalieri Templari non viene menzionata nella Regola dell’Ordine, né nella versione in latino, né in quella in volgare d’Oil.

Fu Papa Eugenio III, il 24 aprile 1147, in occasione della partenza della cosiddetta “Seconda Crociata” (1147-1149), a concedere ai Cavalieri Templari di portare in perpetuo la croce sulle vesti. Probabilmente si trattava di una piccola “croce greca”, ovvero quella con i due bracci della stessa lunghezza.

La prima croce ad essere utilizzata “ufficialmente” dai Cavalieri Templari fu la “Croce Patriarcale”, chiamata anche “di Lorena” o “Croce traversa”, formata da due bracci orizzontali su uno verticale.

Successivamente venne adottata, anche in forma stilizzata, la “Croce Potenziata”, chiamata anche “Ramponata”; ovvero quella alle cui estremità era presente un segmento perpendicolare che la trasformava in una croce a otto punte.

Tutti gli Ordini Monastico-militari adoperavano, come elementi caratteristici e distintivi, non solo mantelli ma anche croci di diverso colore.

Croce nera su mantello e veste bianca per i Cavalieri Teutonici, croce bianca su mantello nero per i Cavalieri di San Giovanni (o Ospitalieri) di Gerusalemme, ed altri ancora.


Infine anche la “Croce Patente”, come quella rinvenuta sulla Cappella di San Luca al Goleto, fu adottata dai Cavalieri dai Bianchi mantelli (Templari) insieme con il colore rosso scarlatto.

Ma come abbiamo già detto, parlare dei Cavalieri Templari non deve essere inteso come parlare di un qualcosa che oggi è di “moda”: in quanto i Templari, così come i Teutonici e gli Ospitalieri, ma anche i Giovanniti rappresentavano il “braccio armato della Chiesa”.

Erano certamente degli Ordini che avevano particolari peculiarità e nei luoghi nei quali la loro presenza è stata ampiamente accertata e documentata hanno lasciato tracce incise sulla roccia.

In conclusione di questo viaggio c’è da dire che presso l’Abbazia del Goleto (AV) vi sono una serie di simbologie davvero rare ed affascinanti, esisotno collegamenti con Chartres e con Castel del Monte, luoghi misteriosi per antonomasia.

Tracce di un passato che continua ad affascinare ed a suscitare profondo interesse tra gli studiosi e/o semplici appassionati di storia.
Ma le bellezze del Goleto potevano anche rimanere ancora celate se non fosse stato per il grande impegno di Padre Lucio M. De Martino, il quale con caparbietà ha saputo portare avanti una lunga battaglia per far ritornare all’antico splendore questo meraviglioso monastero, sottraendolo alla distruzione del tempo ed ai vandali sacrileghi, ridonando all’Irpinia ed all’Italia intera un monumento di inestimabile valore.

Marco Di Donato

marco-didonato@alice.it

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Un commento:

  1. Marco Di Donato

    Ringrazio io la redazione de ilpuntosulmistero che ha dato fiducia al sottoscritto ed anche per le lusinghiere parole a conclusione del mio studio.

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