I SEGRETI DEL CARDINALE ANNIBALDO DE CECCANO – I^parte. L’ENIGMA DEL BLASONE

 

Immagine di apertura; Il blasone del cardinale Annibaldo de Ceccano (1280-1350) realizzato nell’estate del 2021, in piazza XXV luglio a Ceccano (foto Roberto Adinolfi 2021)

 

 

I SEGRETI DEL CARDINALE ANNIBALDO DE CECCANO.

I^ parte.

 

L’ENIGMA DEL BLASONE

 

di Giancarlo Pavat

Il cardinale Annibaldo de Ceccano (1280-1350), può senza tema di smentita essere considerato l’ultimo membro dell’antica schiatta comitale ceccanese ad aver avuto un ruolo importante a livello (si direbbe oggi) internazionale. In questo primo articolo ci si occuperà di far luce sulla ”vexata quaestio” del suo blasone, da cui ha avuto successivamente origine quello del Comune di Ceccano.

 

2. immagine in alto; lo stemma del Comune di Ceccano (fonte Wikipedia).

Annibaldo era figlio di Berardo II (morto nel 1321) e di Perna Caetani Stefaneschi, sorella del cardinale Jacopo Caetani degli Stefaneschi (1270-1343), e della madre di un altro cardinale; Francesco Tibaldeschi.
Quindi era nipote del famoso e potente cardinale Stefaneschi, committente del celeberrimo “Polittico Stefaneschi” dipinto da Giotto ed oggi esposto ai Musei Vaticani.
Annibaldo, per ricordare le nobili famiglie dei propri genitori (e per onorare il potente zio cardinale), adottò un blasone “partito”. Con questo termine si indica uno scudo (e ovviamente anche un vessillo) diviso per metà da una linea verticale passante per il centro. Nel caso di Annibaldo, nel I° partito (quello a sx per chi osserva lo scudo) compare l’aquila ceccanese uscente dalla partizione e, nel II° partito, l’esatta metà del blasone degli Stefaneschi (che era, ovviamente, pure quello del potente zio cardinale).

3. Immagine sopra; Stemma degli Stefaneschi (Fonte Wikipedia)

Secondo il linguaggio araldico il blasone degli Stefaneschi va descritto in questa maniera:
Fasciato di rosso e d’argento. Le fasce d’argento caricate di 6 “Crescenti” di rosso disposti 3, 2 e 1.
In araldica con il termine “Crescente” si indica il quarto di luna.
Quando le “corna lunari” sono rivolte verso l’alto (come nel caso del blasone degli Stefaneschi e del cardinale Annibaldo), il “Crescente” viene chiamato “Montante”. Invece se le avesse verso il lato destro sarebbe “Voltato”, se verso il basso, “Rovesciato” ed, infine, se verso il lato sinistro: “Rivoltato”.
I manuali di Araldica spiegano che il termine “Crescente” è preferito a quello di “Mezzaluna”, per prima cosa perché ricorderebbe troppo l’Islam ma soprattutto perché nel linguaggio figurato è un auspicio all’accrescimento delle fortune della famiglia che lo reca nel proprio stemma.

4. Immagine sopra; Trieste. Cattedrale di San Giusto. Stemma di papa Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini (1405-1464), già vescovo di Trieste (foto G. Pavat 2019).

5. Stemma della Famiglia dei Tolomei a Collepardo (FR) – (foto G. Pavat 2006)

 

Per questo motivo è diffusissimo nei blasoni italiani (l’umanista senese Enea Silvio Piccolomini, Vescovo di Trieste e poi papa Pio II, sul proprio blasone ne aveva ben cinque inseriti in una “Croce piana”) ed è molto utilizzato sopra gli ingressi delle abitazioni. Per rimanere nel Basso Lazio, un esempio di questo tipo è visibile a Castro dei Volsci (FR) in via Civita, o sul blasone dei Tolomei a Collepardo (FR) o a Sonnino (LT) al civico 5 di via Susti.
In un recente convegno tenutosi al Castello di Ceccano si sono uditi diversi strafalcioni a proposito del blasone degli Stefaneschi. In primis il “Crescente” è stato, appunto, chiamato “mezzaluna”. Ma ancora peggio è stato quando l’oratore (evidentemente a digiuno di nozioni di araldica) ha affermato con sicumera degna di miglior causa, che la celebre famiglia romana aveva inserito le “mezzelune” (sic!) nel blasone perché aveva partecipato alle “Crociate”. 
In realtà il “Crescente” richiama il celebre passo dell’”Apocalisse di Giovanni”.
Apparve allora in Cielo un grande segno, una donna rivestita di sole sotto i piedi la luna e sul suo capo una corona di 12 stelle.
Questa donna è stata identificata con la Vergine Maria ed infatti in tantissime raffigurazioni la Madonna è resa iconograficamente, appunto, con una corona di 12 stelle e posta sopra un “crescente montante”. Quindi viene posto su stemmi e blasoni proprio come raffigurazione allegorica della Madonna.

6. Immagine sopra; “Diana cacciatrice” olio su tela del 1658 del Guercino (Fondazione Sorgente Group, Roma)

 

D’altronde è il simbolo anche di divinità pagane femminili. Come Diana-Artemide-Ecate o Iside, che non sono altro che alcune delle tante raffigurazioni della antica Dea Madre.

Tornando allo stemma voluto dal cardinale Annibaldo e osservandolo bene si noterà che vi compaiono soltanto alcuni dei “Crescenti”. Non certamente 6. Come invece avviene nella bruttissima copia (addirittura la gloriosa Aquila dei de Ceccano sembra un piccione grigio) realizzata sulla pavimentazione di piazza XXV luglio. Infatti questo stemma è sbagliato!

Del blasone del cardinale ceccanese ci sono pervenuti alcuni esemplari originali trecenteschi che possono/devono essere utilizzati per le copie moderne.

7. Immagine sopra: Il blasone del cardinale Annibaldo affrescato all’interno del suo palazzo avignonese, oggi sede della seconda più importante biblioteca di Francia.

L’esemplare probabilmente più importante da prendere come modello è quello affrescato (assieme a quello con l’Aquila, stemma della stirpe ceccanese, e a quello degli Stefaneschi) sulle pareti delle sale trecentesche del palazzo avignonese del ricco e potente cardinale. Quello che oggi è la sede della “Mediateque Ceccano”, ovvero la seconda Biblioteca di Francia per importanza.
Il blasone si presenta ovviamente con il I° partito di rosso all’aquila d’argento (o bianca) e con il II° partito fasciato di rosso e d’argento e con 3 “crescenti” caricati in quest’ultime fasce. In realtà, se osserviamo bene gli affreschi (e soprattutto i disegni del blasone presenti sui pannelli informativi della “Livrèe Ceccano”, si nota che, ad essere precisi, i “Crescenti” sono quattro, due interi e due a metà.
La cosa è assolutamente logica visto che il blasone degli Stefaneschi (con, ricordiamolo, 6 “Crescenti” disposti dall’alto in basso secondo la sequenza 3, 2 e 1) è stato tagliato perfettamente in due.

8-9. Immagini sopra e sotto; I blasoni del cardinale Annibaldo e degli Stefaneschi in uno dei pannelli esplicativi presso la “Livrèe Ceccano” ad Avignone. I due stemmi si basano su quelli trecenteschi affrescati all’interno del palazzo cardinalizio. Nel primo a sinistra, quello di Annibaldo IV si nota metà aquila nel I° partito e le 6 fasce con 4 “crescenti” nel II°. Mentre l’altro stemma raffigura il blasone della famiglia Stefaneschi e del cardinale Jacopo con 6 fasce e altrettanti “crescenti”.

 
Proprio come scrive pure Aldo Papetti nel suo libro “I Conti di Ceccano nei secoli XII e XIII. Lo schiaffo di Anagni, 7 settembre 1303” (Nuova Stampa Frosinone 2003).
Perplessità suscita, invece, l’esemplare del blasone del cardinale scolpito nella pietra e attualmente conservato all’interno della Chiesa di Santa Maria al fiume a Ceccano.
Il manufatto è frammentario, infatti è sopravvissuta solo la parte inferiore della metà aquila del I° partito e 3 fasce del II° partito. Ebbene queste 3 fasce che sono quelle inferiori (3 su 6) contengono ben 3 “Crescenti” (disposti, dal basso verso l’alto, secondo lo schema 1 – 2). Quindi, seguendo la logica araldica, nella quinta fascia in alto (scomparsa) dovrebbero esserci 3 “Crescenti”.
In pratica l’ignoto scalpellino avrebbe preso tout court il blasone degli Stefaneschi e l’avrebbe inserito sic et simpliciter nel II° partito, senza ragionare sul fatto che, stando proprio alle regole araldiche e soprattutto al volere di Annibaldo (come dimostrano gli affreschi avignonesi commissionati dal “padrone di casa”), tale lo stemma andava tagliato (partito) in due parti uguali e simmetriche, con due “Crescenti” interi e due a metà da una parte e altrettanti dall’altra (omessa perché occupata dalla mezza aquila ceccanese).
Alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che il blasone di Santa Maria a Fiume possa essere appartenuto a qualche altro cardinale ceccanese. Ad esempio, Gelasio Caetani ha avanzato l’ipotesi che potrebbe trattarsi di Giordano da Ceccano. Sulla stessa lunghezza d’onda l’abate Vincenzo Misserville (a cui si deve la diffusione della venerazione per “Santa Maria del Fiume” e l’impegno per la ricostruzione della chiesa-santuario a Lei dedicata, dopo la distruzione a seguito del bombardamento Alleato del ‘44) nel libro “Il Santuario di Santa Maria del fiume in Ceccano” (Scuola Salesiana del Libro 1938).
Invece, sia Colone e Mirra (“Santa Maria a Fiume”, Associazione Culturale “La Colomba” Ceccano, 1992) che gli ottimi Garofali e Ricci (“La Vergine del Fiume” (Città di Ceccano 2018), escludono categoricamente che si possa attribuire a Giordano de Ceccano. Noi non possiamo che concordare con loro. La presenza dei “Crescenti” degli Stefaneschi attesta che deve per forza appartenere a qualcuno imparentato con questa potente Famiglia.
Quanto al numero dei “Crescenti”, è probabile che l’esemplare di Santa Maria a Fiume sia stato realizzato da chi non conosceva affatto il vero blasone di Annibaldo IV e senza il suo diretto interessamento o, forse, addirittura, tempo dopo la sua esistenza terrena.

10. Immagine sopra; Il frammento lapideo con ciò che resta del blasone del cardinale Annibaldo conservato all’interno della chiesa di Santa Maria a Fiume a Ceccano (foto G. Pavat 2019).

Ma quello che può essere considerato un vero e proprio “enigma” del blasone di Annibaldo, si infittisce se si vanno a vedere alcune riproduzioni presenti in un importante volume dedicato proprio al cardinale trecentesco.

Si tratta del pregevole libro “Annibaldo de Ceccano e il suo tempo”, edito nel 2004 a cura della Regione Lazio, dell’Amministrazione Comunale ceccanese e del fabraterno Liceo Scientifico “Martino Filetico”.

Di fatto è la traduzione in italiano (a cura di Umberto Germani) dell’opera Le Cardinal Annibald e Ceccano (vers 1282-1350): itude buographique et testament du 17 juin 1348” (Bruxelles, Rome 1973) dello storico padre Marc Dykmans (Ekeren in Belgio 1905 – Roma 1979). La fatica del gesuita belga ancora oggi può essere considerata la più completa sulla vicenda umana e storica del cardinale Annibaldo de Ceccano. Ecco perché non si può che essere grati a coloro che si impegnarono nel 2004, affinché il volume vedesse la luce. Come il maestro Umberto Germani, o Aldo Papetti a cui si devono delle approfondite note al lavoro di Dykmans o gli insegnanti del Liceo Scientifico, in particolare la professoressa Stefania Alessandrini e, ovviamente agli studenti dell’epoca che parteciparono al progetto.

Ma sebbene il lavoro dello storico belga (nonché unico biografo del cardinale) faccia luce su molti aspetti della storia di Annibaldo, non chiarisce affatto l’enigma del suo blasone. Anzi…

Vediamo assieme il motivo di questa nostra affermazione che (lo ribadiamo a scanso di equivoci) non toglie nulla al valore complessivo dell’opera di Dykmans.

A pagina 75 de “Annibaldo de Ceccano e il suo tempo” del 2004, inizia il capitolo denominato “Il sigillo e gli stemmi di Annibaldo”. Già dal titolo, dovrebbe consentire di fare chiarezza una volta per tutte, ma….

Nella prima parte, Dykmans parla di alcuni sigilli rivenuti in Francia; “

Il primo sigillo ritrovato del cardinale è a Parigi, negli Archivi Nazionali. È appeso, con cordicelle di seta rossa, a due atti datati in Avignone il 31 gennaio e il 6 febbraio del 1348. Riguardano l’esenzione di una signoria che fa parte della mensa abbaziale di Saint Denis, quella di Chaource nella diocesi di Laon, nel senso che la terra di Chaource non dovrà pagare nulla fino ad ordine contrario. Annibaldo conferma ciò che ha concesso come Nunzio. Il suo sigillo, in navetta di cera vermiglia su cera bianca, misura 70 per 45 mm. Esso è a tre piani. La composizione è artisticamente perfetta. In alto è visibile, sotto portici e pinnacoli, la Vergine, seduta, il capo inclinato, con il Santo Bambino sul braccio sinistro. Nel mezzo, tre santi in piedi: San Lorenzo, al quale il suo antico cardinale-prete resta fedele, con una lancia nella mano destra e la sua graticola nella mano sinistra, tra gli Apostoli Pietro e Paolo. Nella nicchia in basso si vede il cardinale, con mitria e piviale, inginocchiato in preghiera. E fiancheggiato da due scudi con i suoi stemmi. Un terzo scudo si vede in rilievo in fondo al sigillo. La didascalia è la seguente: S. ANIBALDI. MISATIOE DIA. EPI. TUSCULANI”.

Bisogna precisare che non sempre i sigilli corrispondevano esattamente ai blasoni famigliari o dei singoli membri di una determinata stirpe. Quindi, relativamente a questa ricerca e al tentativo di sciogliere i dubbi e misteri relativi al blasone, interessa molto di più ciò che il gesuita belga scrive nel proseguo del capitolo;

Gli stemmi sono quelli dei Ceccano uniti con quelli degli Stefaneschi. Annibaldo ha manifestato così la propria riconoscenza al cardinale Stefaneschi, suo prozio (in realtà era zio di primo grado essendo il fratello della madre NDA), aggiungendo il suo blasone al proprio; è uno scudo con mezza aquila rossa su campo argenteo, con due o tre bande decorate da mezzelune”. Rimaniamo di stucco. Aldilà dell’utilizzo di termini non propriamente araldici (“mezzelune” invece che “crescenti”), appare evidente che Dykmans non ha mai visto o comunque non conosce il blasone del protagonista della biografia. Lo stemma degli Stefaneschi e del cardinale Jacopo ostentano 6 fasce alternate rosse e argentee. Altro che due o tre!

Ricordate come lo abbiamo descritto qualche pagina fa?! “Fasciato di rosso e d’argento. Le fasce d’argento caricate di 6 “Crescenti” di rosso disposti 3, 2 e 1.”. Il bello è che nella riga successiva Dykmans spiega che “Si conoscono bene, grazie al “codice di San Giorgio, gli stemmi del cardinale Stefaneschi”.

Ma non è finita.

Dykmans prosegue informando che i blasoni del cardinale ceccanese “ci sono ancora noti grazie a due monumenti di architettura gotica testimoni del mecenatismo di Annibaldo per il suo paese natale. Il primo era una cappella, o piuttosto due cappelle, che egli aggiunse alla chiesa consacrata ai piedi di Ceccano nel 1196 dal primo cardinale della sua casata, Giordano. E l’abbazia secolare di S. Maria a Fiume, sulle rive del Sacco. In questa chiesa, senza dubbio, furono redatti gli “Annali Ceccanesi”, noti anche col nome di “Cronaca di Fossanova”, dalla località love furono ritrovati. Benché la chiesa sia piccola, essa è la più importante di Ceccano e della Contea dei conti ceccanesi. Si conosce il luogo dei tre altari primitivi e le reliquie che essi contenevano. Si hanno i nomi degli abati del 1330, al tempo di Annibaldo, e perfino i nomi dei preti e dei chierici. Il loro numero era superiore alle possibilità che il capitolo avesse, con le sue entrate, di mantenerli. Ecco perché si chiese ancora a Clemente VI di rinnovare il divieto di metterne di più, con una richiesta del 29 dicembre 1345. Secondo il suo testamento del 24 maggio 1362 Tommaso da Ceccano, fratello del cardinale, chiese, se fosse morto in Ceccano, di essere seppellito in una delle cappelle che Annibaldo aveva costruito nella chiesa di Santa Maria a Fiume. Gli “Annali ceccanesi” ci danno pure i nomi delle sei altre chiese di Ceccano: San Matteo, San Giovanni, San Pietro, San Quinziano, San Nicola e Sant ‘Elia. La chiesa è stata disgraziatamente distrutta da un bombardamento aereo nel febbraio 1944, nel corso della seconda guerra mondiale, prima di essere fedelmente ricostruita nel 1958”.

E subito dopo questi brevi cenni storici sulla chiesa di Santa Maria a Fiume compare (a pagina 76 de “Annibaldo de Ceccano e il suo tempo” del 2004) un disegno del blasone del cardinale con una didascalia che recita;

Stemma del cardinale Annibaldo da Ceccano. Il disegno dello stemma del cardinale Annibaldo tratto da una pietra incastrata al muro della cappella di sinistra del coro attuale, distrutto nel 1944, presente nella chiesa di S. Maria a Fiume a Ceccano”.

È palese che trattasi della ricostruzione dello stemma che compare nel frammento lapideo posto all’interno della chiesa di Santa Maria a Fiume. D’altronde a dircelo è lo stesso gesuita belga; “……degli stemmi incastrati di una di loro (sta parlando delle cappelle della chiesa NDA) non resta che una mezza pietra dove si riconosce ancora la parte bassa del blasone con i fiocchi del cappello cardinalizio”.

11. Immagine sopra; Ecco il disegno del blasone di Annibaldo che compare a pagina 76 del libro “Annibaldo de Ceccano e il suo tempo”. Si tratta della ricostruzione dell’esemplare frammentario ancora oggi visibile all’interno di Santa Maria a Fiume.

In una nota a piè pagina, lo storico belga puntualizza “Solo lo scudo, disegnato dal principe Gelasio Caetani, figura nella “Genealogia” (Perugia, 1920, pl.66). Grazie alla cortesia dell’autore, noi avemmo in prestito il disegno più completo nell’articolo dedicato alla chiesa da G. Marchetti – Longhi (La chiesa di Santa Maria del Fiume (Sic!) e i cardinali Giordano e Annibaldo de Ceccano, nel Bollettino del Lazio meridionale della Società Romana di storia patria, 1, 1951). Aggiungiamo che la rosa che fiancheggiava la sommità del cappello esiste ancora in un altro frammento di pietra: è senza dubbio una rosa Orsini”.

12-13 Immagini sopra e sotto; Stemmi della Famiglia Orsini. Parafrasando Dante, “i figliuoli” dell’orsa” (Divina Commedia, Inferno, Canto XIX, 70). “Bandato di argento e di rosso, al capo del primo (colore, ovvero d’argento NDA) caricato d’una rosa del secondo (ovvero di colore rosso NDA), sostenuto da una trangla (termine araldico con cui si indica fascia ridotta della metà NDA) cucita d’oro e caricata d’una anguilla serpeggiante in fascia di azzurro”. Effettivamente c’è una certa somiglianza con la rosa posta a destra del cappello cardinalizio nel disegno della ricostruzione di Dykmans. Ma nel blasone avignonese del cardinale Annibaldo non compare alcuna rosa.

A questo punto appare ovvio che la descrizione (errata) che, poche righe prima, lo stesso Dykmans aveva fatto del blasone del cardinale Annibaldo, si basa sul disegno della ricostruzione dell’esemplare di Santa Maria a Fiume.

14-15. Immagine sopra; Il blasone sbagliato del cardinale Annibaldo de Ceccano (1280-1350) realizzato nell’estate del 2021, in piazza XXV luglio a Ceccano (foto Roberto Adinolfi 2021). Mentre in basso; il disegno del blasone di Annibaldo compare a pagina 76 del libro “Annibaldo de Ceccano e il suo tempo”.

Ed è non meno palese che l’artefice dell’esemplare di piazza XXV Luglio si sia, con tutta probabilità, ispirato al disegno del libro di Dykmans.
Ma proseguendo nella lettura del capitolo che Dykmans dedica agli stemmi del cardinale, ci imbattiamo in quella che possiamo considerare una conferma (seppure indiretta) che l’esemplare di Santa Maria a Fiume sia sbagliato. Da Ceccano dobbiamo recarci in un paese dei Monti Lepini appartenuto alla stirpe ceccanese. Carpineto Romano, oggi in provincia di Roma.

16-17. Il blasone del cardinale Annibaldo posto sopra il portale (ricostruito) laterale della chiesa di Sant’Agostino a Carpineto Romano (Roma). (foto G. Pavat 2006) 

Infatti un blasone in cui si riconosce quello del cardinale Annibaldo campeggia nel timpano dell’ingresso laterale della chiesa di Sant’Agostino, che sorge fuori Carpineto.

La chiesa risale al 1200 ma ha subito tanti e tali rimaneggiamenti che risulta difficile farne una cronologia esatta.

La località è appartenuta ai de Ceccano dal 1077 circa, sino al 1299. In questa data passò ai Caietani grazie all'”interessamento” (eufemismo) di Bonifacio VIII.

Nel 1323 Carpineto ritornò in possesso ad un ramo dei de Ceccano, i cui membri assunsero il titolo di “Conti di Segni e Valmontone”. Il possesso durerà sino all’estinzione del ramo maschile dei Conti di Ceccano.

Dykmans spiega che il cardinale Annibaldo, nel suo testamento redatto nel 1348, lasciò “100 libbre di provesini ai cistercensi di Fossanova e Casamari per 4 anniversari, ai monaci bianchi di Marmosolio e a gli eremiti dell’Ordine di Sant’Agostino di Carpineto, a cui spettano in più 100 libbre per le riparazioni della chiesa”.

Giustamente, il professor Italo Campagna, nel suo libro “Il convento di Sant’Agostino in Carpineto”, sottolinea come il cardinale abbia contribuito in prima persona ai lavori di restauro (e non di costruzione) della chiesa di Sant’Agostino. E per questo motivo nel timpano del portale laterale c’è il suo blasone.

Sempre secondo il Campagna il portale venne recuperato a pezzi tra i ruderi dell’abbazia di Santo Stefano di Valvisciolo e rimontato così come lo vediamo oggi ai tempi del pontificato di Leone XIII che era nato proprio a Carpineto. Siccome Santo Stefano di Valvisciolo venne abbandonata dai monaci nel XII secolo, giocoforza è impossibile che il blasone del cardinale si trovasse già ab origine sopra il portale.

 

 

18. La lapide che ricorda Gregorio Silvestri, finanziatore nel 1200 della chiesa di Sant’Agostino a Carpineto

Inoltre, sul lato sx della facciata, vi è murata una lapide il cui testo in latino a lettere gotiche, ricorda che il vero finanziatore della chiesa alla fine del 1200 fu tale Gregorio Silvestri.
Persino il rione carpinetano che prende il nome dalla chiesa di Sant’Agostino ha adottato una versione  del blasone del cardinale ma con 3 “crescenti” e con i colori decisamente modificati.
 

19. Immagine sopra: lo stemma del Rione Sant’Agostino di Carpineto che richiama (con sostanziali modifiche) il blasone del cardinale Annibaldo.

 

Nel proseguo del libro e dell’elencazione di altri esemplari del blasone del cardinale, Dykmans confonde nuovamente le idee…
Annibaldo ha costruito altre cappelle? Il testamento permette di supporlo. Sappiamo almeno di una, di cui egli parla e che noi per altro conosciamo. Essa è situata in Avignone, nella chiesa dei francescani, oggi distrutta. Joseph-Marie Suares notò, all’inizio del XVII secolo, i blasoni del cardinale nella volta di una cappella laterale presso il portico dell’entrata. È quella che era ancora incompiuta nel 1348. C’è un altro luogo della città papale, più celebre, in cui versi scadenti attribuiscono al Ceccano non la costruzione di una cappella, ma la commissione degli ammirevoli affreschi, recentemente salvati, per quanto fu possibile, che Simone Martini dipinse nel portico di Notre-Dame-des-Doms. Il pittore senese venne ad Avignone senza dubbio nel 1340 e vi morì nel 1344. Il cardinale Giacomo Stefaneschi non poté commissionargli il lavoro che prima di morire il 23 giugno 1341, all’età di ottantanni. Annibaldo ne ereditò la tesoreria di Cambrai il 25 maggio 1342.
Non è affatto provato che fosse lui il cardinale in veste blu inginocchiato davanti alla Vergine con umiltà, ma ciò è possibile, anche se fu il suo esecutore testamentario che confermò la commissione fatta. E ciò che farebbero comprendere questi versi letti una volta sotto il San Giorgio a sinistra dell’entrata (Tra l’altro lo Stefaneschi aveva il titolo di cardinale di San Giorgio NDA)
Pictoris merans manu, celeberrmus arte
Memmius hoc magni munere duxit opus.
Scilicet Annibalis fuit haec pia dona Secani Vinis sex lunae cornua stemma docent.
Si può dare un senso a questi versi leggendo:
Pictoris mirare manum, celeberrimus arte Memmius hoc magni munere duxit opus.
ScilicetAnnibalis sunt haecþia dona Secani Cuius sex lunae cornua stemma docent.
Il marchese De Cambis-Velleron, ln un manoscritto del Museo Calvet, cita i versi come sono scritti sotto la pittura. Verso il 1600, André Valladier, in quel tempo gesuita e entusiasta del passato di Avignone, citò Annibaldo come colui che ha commissionato il capolavoro del Martini.
Senza dubbio le sei mezzelune sono sia sui blasoni di Stefaneschi e sia su quelli di Annibaldo. Ambedue senza la compagnia di una mezza aquila. Frattanto è notevole che si sia identificato il “grande Annibaldo da Ceccano” (Secani era una forma frequente in Avignone per indicare Ceccano) come l’autore del dono, d’altronde attribuito a Memmius, cognato di Simone Martini. Fu Annibaldo da Ceccano o Giacomo Stefaneschi che pagò l’opera acquistata? Appare più probabile che fosse il cardinale di Frascati, Annibaldo”.
Rimaniamo frastornati. Che cosa significa “Senza dubbio le sei mezzelune sono sia sui blasoni di Stefaneschi e sia su quelli di Annibaldo. Ambedue senza la compagnia di una mezza aquila”?
Abbiamo già visto come all’interno del palazzo avignonese di Annibaldo il suo blasone comprenda la mezza aquila! Quindi è chiaro che l’ignoto autore dei “versi scadenti” se voleva indicare Annibaldo come il committente di Simone Martini, ha preso una grande cantonata nel cercare di descriverne lo stemma. Ma la clamorosa cantonata l’ha presa pure il Dykmans. Qui non si tratta nemmeno di contare i “crescenti”, visto che arriva addirittura ad escludere la mezza aquila. Ovvero il simbolo più importante della stirpe dei Ceccanesi. Ma vogliamo scherzare?!
A cercare di fare un po’ d’ordine in questa vexata quaestio ci hanno fortunatamente pensato coloro che hanno curato i diversi aspetti della pubblicazione del Dykmans del 2004. In particolare l’architetto Vincenzo Angeletti e Aldo Papetti. A pagina 2 del libro leggiamo; “In copertina: lo stemma è stato trovato e ridisegnato dall’architetto Vincenzo Angeletti”.
Si sta parlando dello splendido blasone di Annibaldo IV che campeggia in copertina e che definire filologicamente ed araldicamente corretto pare poco.
Ancora più esplicito è Papetti che, nelle sue “Note su Annibaldo”, evidenzia come, in più punti del proprio lavoro, Dykmans “riporta notizie rivelatesi poi inesatte”. E in merito al blasone Papetti scrive
Dykmans si occupa anche dello stemma del cardinale Annibaldo. Dopo aver descritto il sigillo che si trova a Parigi negli Archivi Nazionali, il professore cita gli stemmi esistenti nella chiesa di Santa Maria a Fiume a Ceccano e sul portale laterale in una chiesa in Carpineto Romano”.
E qui Papetti, giustamente, mette i classici puntini sulle “i”;
Fino ad alcuni anni fa, una grande incertezza regnava circa lo stemma di Annibaldo e si riteneva che lo stesso stemma della città di Ceccano fosse identico a quello del cardinale. Alcuni timbri risalenti a qualche secolo fa, ci mostrano uno stemma sempre con la mezza aquila, ma a volte con quattro, cinque oppure sei lunette” Di questa incertezza sul numero dei ”crescenti” ce ne siamo accorti (e ne abbiamo dato contezza) anche noi.
Gelasio Caetani ipotizza addirittura che lo stemma di Santa Maria a Fiume, possa essere quello del cardinale Giordano che, col nipote Giovanni, ricostruì la chiesa.
Dopo la scoperta, nel palazzo di Avignone che fu di Annibaldo, degli stemmi dei de Ceccano, quelli degli Stefaneschi e quello di Annibaldo, è stato possibile fare chiarezza su questo punto. La rappresentazione che qui viene pubblicata, per gentile concessione dell’autore architetto Vincenzo Angeletti, è da considerarsi come l’autentico stemma del cardinale”.

20. immagine sopra; La copertina del volume del 2004 in cui campeggia il vero blasone del cardinale Annibaldo, realizzato dall’architetto Angeletti.

Quindi tirando le conclusioni di questo primo articolo sui “segreti” del cardinale Annibaldo, non vi è dubbio alcuno che già nel 2004, coloro che avevano contribuito affinché vedesse la luce in lingua italiana la biografia di Annibaldo scritta da Dykmans nel 1973, avevano stabilito con certezza quale fosse il “vero” blasone del cardinale. Ovvero quello “trovato e ridisegnato” dall’architetto Angeletti. Il quale, non a caso, corrisponde a quello del palazzo avignonese di Annibaldo e a quello di Carpineto Romano.
Fine I^ parte
(Giancarlo Pavat)

 

Immagine sopra; l’Arma del cardinale Annibaldo de Ceccano da Wikipedia. Anche in questo caso, correttamente seguendo la lezione dell’architetto Angeletti, i “Crescenti montanti” sono quattro.

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Un commento:

  1. Buongiorno, bellissimo articolo. Scritto davvero bene. Sono un insegnante di storie e geografia (in pensione) e debbo dire che raramente ho avuto la possibilità di leggere qualcosa di così avvincente su un argomento (uno scudo araldico) tutto sommato secondario.
    Complimenti

    Annamaria Rosà (Roma)

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