LA LEGGENDARIA SPADA DI ATTILA O DI DRACULA – di Giancarlo Pavat e Roberto Volterri

(Immagine 1 – Vaticano, Stanze di Raffaello; papa Leone  Magno ferma Attila sul Mincio – 1514 – Fonte Wikipedia)

 

La leggendaria “Spada di Dio” o “Spada sanguinante” di Attila, re degli Unni o di Vlad III Dracul Voivoda di Valacchia

 di Giancarlo Pavat & Roberto Volterri.

 

Primus in hoste tela coiciam. Si quis potuerit Attila pugnante otio ferre, sepultus est .

(Giordane, De origine actibusque Getarum, XXXIX)

 

 

Da qualche parte, in qualche castello della Transilvania, oggi in Romania ma sino al termine della Prima Guerra Mondiale regione del Regno di Ungheria e, quindi, dei domini degli Asburgo, potrebbe celarsi la mitica e favolosa “Spada di Dio” appartenuta ad Attila, re degli Unni.

La leggenda (ma è solo una leggenda?) relativa a questa spada fa parte del corpus tradizionale di racconti e favole di quella Transilvania plurietnica che oggi non esiste più, cancellata dalla Seconda Guerra Mondiale e dal regime comunista rumeno.

Un’aspra regione fatta di montagne, oscure foreste, e turbinosi fiumi, in cui tre popoli (o tre nazioni), magiari, rumeni e sassoni, coesistettero (più o meno pacificamente) per secoli. Una terra famosa in occidente perché diventata la patria per antonomasia di vampiri e altre creature delle tenebre, da quando, sul finire del XIX secolo, Bram Stoker pubblicò il suo celeberrimo romanzo “Dracula”.

E tutto ciò sebbene il personaggio storico che ispirò allo scrittore irlandese il conte-vampiro, pur essendo nato a Sighișoara (oggi nel distretto rumeno di Mureș nella regione storca della Transilvania) non fosse affatto un conte transilvano ma il Voivoda di Valacchia (la regione più meridionale della Romania, lambita dal Danubio), ossia Vlad III Tepeş (l’impalatore) “Dracul”. Spietato e crudele ma eroe della lotta per la difesa della Fede Cristiana contro l’Islam e per la libertà della propria Patria contro gli invasori Ottomani.

 

Quello che rende noi capaci di credere in cose che sappiamo non essere vere.

                                                               (Bram Stoker, Dracula)

 

(Immagine 2 – Dino Coppola  con il ritratto di Vlad III di Valacchia conservato nel Castello di Ambras presso Innsbruck , Austria. Vlad è quello incorniciato – foto Albamarina Coppola 2020)

Fama, quella dovuta al conte-vampiro Dracula ed ai suoi epigoni, di cui la Transilvania, alla luce della straordinaria ricchezza di racconti, miti, leggende, fiabe, che ancora oggi conserva, non aveva certamente bisogno.

Ma al di là della gotica vicenda narrata da Stoker (il suo “Dracula” rimane comunque un capolavoro), nel romanzo compare una quarta etnia presente in Transilvania, di cui si dichiara discendente lo stesso Conte. Si tratta degli Szèkely, chiamati anche “Sìkuli” nelle fonti latine e italiane.

Noi Szèkely abbiamo diritto di essere orgogliosi” – racconta Dracula al suo sventurato ospite, il giovane inglese Jonathan Harker – perché nelle nostre vene scorre il sangue di molte razze coraggiose che hanno combattuto come leoni per il predominio. Qui, in questo vortice di razze europee, le tribù ungare hanno portato con sé dall’Islanda lo spirito guerriero ricevuto da Thor e Odino, di cui hanno dato prova, con tanta furia selvaggia, i feroci guerrieri che hanno solcato i mari d’Europa, e anche d’Asia e d’Africa, tanto che le genti tutte pensavano che fossero i lupi mannari stessi. Anche giungendo qui, hanno trovato gli Unni, la cui furia guerriera aveva devastato la terra come fiamma ardente, al punto che i popoli agonizzanti credevano che nelle loro vene scorresse il sangue di quelle antiche streghe che, espulse dalla Scitia (la regione a nord del Mar Nero, oggi in Russia N.d.A) si erano accoppiate con i diavoli nel deserto. Stolti, stolti. Quale demonio, quale strega fu mai grande quanto Attila, il cui sangue scorre in queste vene?” (da “Dracula” di Bram Stoker; edizione italiana Newton Compton 1993).

Quindi il Conte dichiara di discendere dagli Szèkely che, a loro volta, discendono dagli Unni. Anzi, secondo una leggenda dei Magiari di Transilvania, gli Szèkely sarebbero uno dei due gruppi in cui si era diviso il popolo unno dopo la morte di Attila.

Una parte, guidata da Csaba, figlio di Attila, abbandonato l’Occidente (che avevano invano tentato di conquistare), si era diretta verso oriente puntando verso le avite steppe, da cui sarebbero ritornati secoli dopo con il nome di Magiari o Ungari.

L’altra, meno numerosa, era rimasta a vagare nelle antiche province di quello che un tempo era stato l’Impero Romano. Finché si era insediata tra gli impervi monti e le profonde gole della “terra oltre le foreste”.

 

(Immagine 3 – Statua del  principe Csaba a Budapest – immagine di dominio pubblico)

 

Stoker, che prima di scrivere il suo romanzo si era documentato sul folklore ungherese e rumeno, era sicuramente a conoscenza di questa leggenda, perché fa dire al Conte-vampiro; “C’è da stupirsi che fossimo una razza dominatrice? […]. È forse strano che quando Arpad con le sue orde devastasse la terra, trovasse noi, qui, a difesa delle frontiere […] E quando la marea magiara inondò l’Est, gli Szèkely furono festeggiati come fratelli dai Magiari vittoriosi, e per secoli ci venne affidata la difesa delle frontiere con la Turchia”.

 

Ho ucciso contadini, donne, vecchi e giovani…. Abbiamo ucciso 23.884 turchi, non contando quelli bruciati vivi nelle loro case o quelli cui fu tagliata la testa dai nostri ufficiali…

(Lettera di Vlad III a Mattia Corvino).

 

(Immagine 4 – Il noto ritratto di Vlad III da una cronaca sassone del 1462 – Fonte Wikipedia)

Suggestioni leggendarie e letterarie a parte, l’archeologia e l’etnografia ci spiega che, effettivamente la popolazione degli Szèkely era linguisticamente affine ai Magiari (ovvero gli Ungheresi, che parlano una lingua diversa sia da quelle neolatine, che da quelle germaniche che da quelle slave, ma simile al finlandese; tanto che si parla di ceppo linguistico ugro-finnico) ma vi si distingue dal punto di vista etnico. In ogni caso, quando, prima dell’Anno Mille, circa, i Magiari (o Ungari) arrivarono in Transilvania, trovarono gli Szèkely già presenti. Proprio come raccontano le leggende e il Conte-vampiro a Jonathan Harker.

In pratica, sono soprattutto gli Szèkely ad aver avuto il maggior interesse nei confronti di questa “Spada di Dio”, chiamata a volte anche “Spada del Destino”. Mettendo un po’ d’ordine tra varie versioni, e attenendoci soprattutto a quella di matrice magiara, la storia di questa spada è piuttosto semplice e non si discosta molto da storie archetipiche di altre armi magiche o comunque soprannaturali.

Quando gli Unni si misero in marcia attraverso le steppe asiatiche in direzione dell’Occidente, portavano con se una importante reliquia che apparteneva ai loro ancestrali antenati.

Una Spada che si diceva forgiata dal “Dio celeste” stesso. Gli Unni erano pagani e politeisti, quindi questo “dio celeste” va inteso come la più importante tra le varie divinità che adoravano.

Secondo gli sciamani, finché questa Spada sarebbe rimasta in possesso degli Unni, nessuno avrebbe mai potuto sconfiggerli. Ma i problemi sorsero dopo la conquista della Scitia. Essendo ormai troppo numerosi, decisero di dividersi in due gruppi. Uno (che nella leggenda viene già chiamato magiaro) sarebbe rimasto in Scitia; l’altro avrebbe proseguito verso Occidente per conquistare l’Impero dei Cesari. A guidare questo secondo bellicoso gruppo fu chiamato il giovane Attila, figlio di Bendegùz. Al momento della partenza, Attila apostrofò il suo popolo; “A chi apparterrà d’ora in poi la Spada di Dio?

 

    

(Immagine 5 e 6 – In alto, un medaglione di bronzo del Re degli Unni ed in basso un’altro medaglione in cui Attila è raffigurato con evidenti tratti somatici demoniaci. Con tanto di corna! )

 

 

Si riunirono allora per decidere. Dopo aver dibattuto tre giorni e tre notti, accolsero il parere degli sciamani: un cieco avrebbe fatto roteare sette volte la Spada di Dio e poi l’avrebbe scagliata lontano da sé. Se la Spada fosse caduta verso Occidente, se la sarebbero presa gli Unni, se fosse caduta verso Oriente, sarebbe rimasta ai Magiari (ovvero al gruppo che rimaneva in Scitia NDA). Fu subito mandato a prendere il cieco, che scagliò la Spada dopo averla fatta roteare per sette volte”. (da “Miti, fiabe e leggende della Transilvania”, edizione italiana a cura e tradotta da Claudio Mutti; Newton Compton 1996).

Ma, incredibilmente, la Spada lanciata in aria non ricadde a terra. “Si levò un turbine che la portò con se, verso Occidente. In capo a pochi minuti la Spada scomparve. “Lo vedete bene” disse allora Attila “Dio vuole che andiamo a Occidente. Non preoccupatevi per la Spada, perché la ritroveremo e ve lo faremo sapere””. (“Miti, fiabe e leggende della Transilvania”, edizione italiana a cura e tradotta da Claudio Mutti; Newton Compton 1996).

Gli Unni partirono quindi dalla Scitia e, dopo una lunga marcia, occuparono il territorio compreso tra il Tibisco e il Danubio. A questo punto della leggenda, ecco che arriva un sogno rivelatore. In uno stato onirico, forse indotto da droghe sciamaniche, Attila vede uno strano vecchio canuto che gli consegna una Spada smagliante (o fiammeggiante, a seconda delle versioni o traduzioni).

La riconosce come la “Spada di Dio” ma, improvvisamente, (sempre nel sogno) un altro turbine (simile a quello che aveva fatto sparire la Spada) lo rapisce e portatolo in alto, gli consente di vedere la terra sotto di se.

Giù in basso vedevo foreste, montagne, mari, immense pianure, città, le une più grandi delle altre”. – racconterà Attila agli sciamani – “E come brandivo la Spada, gli alberi si curvavano, i flutti del mare si separavano, le città incendiate cadevano in rovina. Riflettete e datemi la spiegazione a questo sogno”. (“Miti, fiabe e leggende della Transilvania”, edizione italiana a cura e tradotta da Claudio Mutti; Newton Compton 1996).

(Immagine 7 e 8 – In alto, busto di Attila , Re degli Unni, nella contea di Hajdú-Bihar in Ungheria, opera di Juha Richárd realizzata nel 2014. In basso, Attila con tanto di epiteto “Flagellum Dei”).

 

Gli sciamani non ci misero molto ad interpretare quella visione apocalittica.

Il tuo sogno è chiaro” – gli risposero – “Tu ritroverai la Spada di Dio e conquisterai il mondo intero”.

Già, ma dove era finita la Spada?

Ecco che, come racconta lo storico bizantino del VI secolo Giordane nella sua “Getica”, nella iurta di Attila arrivò di corsa un pastore che riferì un’incredibile storia. Mentre stava pascolando la sua mandria si era accorto che una giovenca era a terra e perdeva sangue a causa di una ferita provocata da una spada conficcata nella sua schiena.

Il pastore aveva cercato di estrarla dal corpo dell’animale ma la spada era diventata improvvisamente incandescente, Poi, sebbene continuasse a stillare sangue (ecco perché talvolta viene anche chiamata anche “spada sanguinante“ o “insanguinata”, per Giordane sarebbe invece la “Spada di Marte”), si era rapidamente librata in volo, rimanendo a mezz’aria, finché s’era spenta ed era precipitata a terra quasi tra i piedi del pastore unno. Allora era riuscito a recuperarla e l’aveva portata al suo Re.

Tutti gli Unni presenti urlarono all’unisono “Ma è la Spada di Dio” e Attila, afferratala, la alzò verso il cielo, dichiarando che era proprio l’antica Spada degli antenati e, con quella in mano, lui e i suoi Unni sarebbero stati invincibili.

La leggenda si chiude con la lapidaria affermazione che “… quello che gli sciamani avevano predetto si realizzò più tardi. Attila conquistò il mondo intero”. (“Miti, fiabe e leggende della Transilvania”, edizione italiana a cura e tradotta da Claudio Mutti; Newton Compton 1996).

Ovviamente, la Storia, quella vera, è andata in maniera diversa.

Attila e gli Unni seminarono davvero violenze d’ogni genere all’interno dell’ormai morente Impero Romano, distruggendo grandi e fiorenti città come Aquileia.

(Immagine 9 – Una violenta scena degli Unni nella Battaglia dei Campi Catalaunici in un’opera di Alphonse de Neuville -1835-1885 – Fonte Wikipedia).

 

Ma quando si trovarono a dover combattere una vera battaglia campale, le presero di santa ragione dalle Legioni Romane, alleate a truppe ausiliarie barbariche formate da Visigoti, Alani e Franchi, e guidate dal generale Ezio, l”Ultimo dei Romani”.

Si tratta della memorabile Battaglia dei Campi Catalaunici nella Gallia romana, non lontano dall’attuale Troyes, combattuta il 20 giugno del 451 d.C.

Secondo un’altra leggenda, questa volta dell’Europa occidentale, Ezio durante la battaglia avrebbe impugnato un’altra “arma magica”, di ben diversa e superiore potenza, la “Lancia di Longino” che aveva trafitto il costato di Gesù Cristo sulla Croce. Ma questa, come si suol dire…è un’altra storia…..…

 

Questa battaglia è appena cominciata, e alla fine noi vinciamo.

(Bram Stoker, Dracula)

 

Alla fine, lungi dall’aver conquistato il mondo, Attila morì ingloriosamente (forse di indigestione o sbornia o veleno, dopo aver fatto bisboccia durante una sua ennesima festa nuziale) nel 453 d.C. in Pannonia.

Del mistero della sua “tomba” (probabilmente scavata nel letto del fiume Tibisco) si è ampiamente e dettagliatamente occupato uno degli autori di questo articolo, ovvero Roberto Volterri nel suo libro “Archeologia dell’introvabile” (Sugarco, 2006).

 

Ma che fine fece la ”Spada di Dio”?

Certamente non può essere quella “spada” (in realtà una “sciabola da cerimonia”) conservata ancora oggi nella Schatzkammer dell’Hoffburg e facente parte delle collezioni del Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Le Gesta Hungarorum, completate tra il XIII e il XIV secolo, riportano la notizia che si tratterebbe proprio della “Spada di Dio”, che dagli Unni era giunta nelle mani della Dinastia ungherese di Arpad (850-907), che (come il conte Dracula) si considerava diretto discendente di Attila.

(Immagine 10 – Statua bronzea dell’anonimo autore delle Gesta Hungarorum presso il Vajdahunyad di Budapest – Fonte Wikipedia).

 

 

Le terre che vanno dal Danubio allo Tisza appartenevano un tempo al mio antenato, il grande Attila.

                                                                                               (Arpad, citato in Gesta Hungarorum).

 

Quindi la “sciabola” divenne simbolo della stessa Dinastia regnante in Ungheria.

In realtà non si tratta di una spada del V secolo d.C. e non è nememno di fattura unna o comunque barbarica. Gli studiosi sono concordi nel ritenerla realizzata tra il X e l’XI secolo e proprio nel Regno di Ungheria.

 

 

(Immagine 11 – La falsa “Spada di Dio”  onservata nella Schatzkammer dell’Hoffburg e compresa nelle collezioni del Kunsthistorisches Museum di Vienna, spesso indicata pure come “Spada d Carlo Magno”).

 

Forse la ”Spada di Dio” venne sepolta con Attila nella mai trovata tomba nel Tibisco? Oppure l’aveva persa precedentemente nello scontro ai Campi Catalaunici, come sostengono alcuni commentatori e ricercatori?

O, ancora, come sono convinti altri, venne nascosta dal popolo unno, o da Csaba in persona, altrove, da qualche parte tra le Alpi Transilvaniche o sui Monti Carpazi?

Non per nulla, questa mitica spada sembra comparire anche nel già citato romanzo di Bram Stoker. È sempre il conte Dracula a raccontarlo, anche se il riferimento ad Attila e agli Unni non è così esplicito, ma indiretto, nel contesto generale del racconto.

Parla di una mitica “Spada insanguinata”, che solo la sua stirpe, discendente (ormai lo si è capito) dagli Szèkely, seppe raccogliere per prima tra tutte le quattro nazioni che vivevano in Transilvania, e brandirla contro il nemico ottomano per vendicare l’onta della disfatta di Kossovo-Polje (non la battaglia del 28 giugno 1389, ma la seconda, combattuta tra il 17 e il 28 ottobre 1448 sempre nella “Piana dei merli” a nord di Pristina).

 

(Immagine 12 – La battaglia della “Piana dei merli” a nord di Pristina del 1389. Olio su tela di Adam Stefanovic del 1870. Nel 1448 sulla stessa piana si combatterà ancora l’invasore ottomano – immagine di dominio pubblico)

Chissà, in una Terra in cui storia e leggenda si intrecciano, tanto da confondersi l’una con l’altra, la “Spada di Dio” o “Spada del Destino” è davvero custodita in qualche remoto castello. E tornerà alla luce, quando Csaba, che come molti altri sovrani o condottieri (ad esempio il nostro Rex Arturus che riposa in uno “stato di animazione sospesa” nel Mongibello) dorme nascosto in qualche montagna o landa desolata, ritornerà per restituire agli Szèkely la loro Terra.

 

(Immagine 13 – Budapest, piazza degli eroi. Statua equestre di Arpad  del 1896).

(Immagine 14 – Budapest, piazza degli eroi. Statua di Janos Hunyadi, Eroe della lotta contro i Turchi invasori).

(Immagine 15 – Il leggendario “Trono di Attila” davanti alla Cattedrale di Torcello a Venezia)

Il mito di Attila ha lasciato numerose tracce sia leggendarie che iconografiche sul territorio del nostro Paese, soprattutto nelle regioni Nord-orientali. Il colle su cui sorge il castello di Udine e attorno al quale si è sviluppata la città friulana, secondo una leggenda sarebbe di natura artificiale. Fatto erigere dallo stesso Attila per poter godere, dalla sua cima, lo spettacolo di Aquileia in fiamme. E il trono su cui si sarebbe seduto esiste ancora oggi e, secondo un’altra leggenda, sarebbe quello scolpito in un monolite di pietra visibile sul sagrato davanti alla Cattedrale di Torcello, una delle isole di Venezia. Sebbene si tratti solamente di una leggenda, il trono di pietra risale davvero al V secolo d.C., ma non fu realizzato per il “Flagellum dei” bensì per il “Magister militum”, ovvero il governatore dell’isola all’epoca della nascita di Venezia.

Altre tracce di Attila presenti nelle terre affacciate all’Adriatico settentrionale sono di natura “esoterica” e costituiscono dei veri e propri enigmi simbolici di difficile decifrazione. Forse il più affascinante ed intrigante si trova a Visinada in Istria (oggi Croazia): per scoprirlo bisogna raggiungere una “chiesa santuario” con un caratteristico campanile a vela dedicata alla “Beata Vergine dei Campi”, ma nota pure come “Santa Maria del Campo di Dio”.

La chiesa, risalente al XI secolo (anche se l’attuale aspetto risale al XIV secolo) appartenne ai cavalieri Templari sino alla soppressione dell’Ordine, quando passò ai Giovanniti.

(Immagini 16 e 17 – In alto: la chiesa della “Beata Vergine dei Campi” o “Santa Maria del Campo di Dio” a Visinada, in Istria. In basso: nella parte superiore i misteriosi simboli scolpiti a bassorilievo e murati sulla facciata della chiesa e, nella parte inferiore della foto: il non meno enigmatico ed inquietante mascherone che forse raffigura Attila – foto G Pavat 2008),

 

Sulla facciata sopra l’oculus, si notano incastonate quattro sculture in pietra calcarea che non sono mai state interpretate in maniera convincente. Da sinistra verso destra si nota una specie di corona, uno scudo con stemma araldico (forse quello dei Grimani, famiglia feudataria della zona), una figura umana che regge una croce (forse San Giovanni Battista) ed infine un oggetto che sembra una coppa. Secondo altri un ostensorio, oppure la cosiddetta “zampa d’oca”, con cui venivano contrassegnati luoghi posti lungo particolari vie di pellegrinaggio o iniziatiche, e che nella forma ricorda la runa “Algiz”.

Ma l’elemento iconografico più interessante si trova sotto questi bassorilievi e sopra l’arco a tutto sesto. Si tratta di una testa zooantropomorfa scolpita in un blocco calcareo (foto in basso). Ha orecchie di cane o di lupo, larghi baffi e la lingua in fuori. Porta una corona simile a quella del bassorilievo. Sono stati fatti scorrere fiumi d’inchiostro su questa testa, ma senza riuscire a sciogliere l’arcano. Aldilà del fatto che si tratta di una immagine con funzioni apotropaiche, raffigura forse qualcuno in particolare? È stata avanzata l’ipotesi che si possa trattare addirittura del famigerato “Bafometto”. L’idolo mostruoso della cui adorazione vennero accusati i Templari. Ma la maggior parte degli studiosi, basandosi su una tradizione locale, hanno ipotizzato che sia una raffigurazione allegorica di Attila. Rimane un enigma il motivo per il quale sia stata realizzata su una chiesa appartenuta all’Ordine dei “Pauperes Commilitiones Christi Templique Salomonici“.

(Giancarlo Pavat & Roberto Volterri)

  • Se non altrimenti specificato, le immagini sono state fornite dal professor Roberto Volterri.

 

(Immagine 18 – Luca e Giancarlo Pavat sulle tracce dei Templari in Istria, davanti alla chiesa della “Beata Vergine dei Campi” a Visinada – foto Barbara Bartolich dicembre 2008)”

 

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